Il “bestiolo” affrontato con il dialetto nella pianura bolognese
Di Gian Paolo Borghi
La zirudèla è una nota forma poetica popolare dialettale le cui origini sono lontane nel tempo. Secondo l’interpretazione prevalente, il termine deriverebbe da “ghironda” o “ghirondella”, un antico strumento musicale con cui si accompagnava la sua recitazione. Composta in versi ottonari a rima baciata, ha una sorta di andamento circolare: inizia tradizionalmente con Zirudèla e si conclude con Tòc e dài la zirudèla o con formule analoghe.
Le occasioni per la composizione e la declamazione di questi testi, ieri e oggi, sono diverse e spaziano dalle feste (private e pubbliche), al commento di fatti di cronaca, dal Carnevale alla satira a tutto tondo, dalle storielle a doppio senso all’umorismo.
L’attuale emergenza pandemica non ha lasciato indifferenti i zirudlèr, che hanno cercato di rendere meno pesante la grave situazione che stiamo vivendo, senza sfociare in non graditi momenti ridanciani. Il lungo periodo restrittivo al quale siamo stati soggetti li ha fatti esprimere attraverso i social. Una rivista milanese alla quale collaboro, “Il Cantastorie on line”, ha raccolto su tutto il territorio nazionale un numero rilevante di composizioni popolari (non solo zirudèle, ovviamente) a tema Covid.19, che dimostrano come tradizione, attualità e nuovi mezzi comunicativi possano felicemente convivere senza rapporti di sudditanza reciproca.
Ritornando alle zirudèle, ne cito un paio a dimensione locale, composte in un territorio di pianura in cui il dialetto bolognese esercita ancora la sua influenza, nonostante inizi a fare i primi passi con quello ferrarese. Si tratta del cosiddetto cento-pievese, dove peraltro la tradizione annovera ancora autori e proseliti. Tanto per fare alcuni esempi, mi riferisco ai redattori dei “Testamenti” di Tasi, sovrano carnevalesco di Cento, e di Berbaspéin, re del Carnevale della vicina Pieve, nonché delle zirudèle di Re Fagiolino, la maschera-burattino adottata dal paese di Renazzo, una frazione di Cento. In periodo carnevalesco, è tuttora in voga la composizione della zirudèla che anticipa il rogo del “Vecchione”, a Buonacompra, sempre nel centese, la notte della vigilia di Sant’Antonio abate (dal 16 al 17 gennaio), patrono degli animali e apportatore di doni ai bambini, come la“Vecchia” o Befana.
La tradizione delle zirudèle carnevalesche è viva peraltro anche nei confinanti centri bolognesi di San Matteo della Decima, San Giovanni in Persiceto e Crevalcore.
I due autori ai quali faccio riferimento risiedono a Renazzo e si esprimono in quel dialetto. Hanno reso noti i loro testi attraverso la pagina Facebook Al grópp ed quî ch’i ’scòren al dialètt ad Zènt (e d’La Pîv). Entrambi definiscono il virus un “bestiolino” e concludono i componimenti con spirito positivo. Per ragioni di spazio propongo soltanto alcune strofe delle loro zirudèle, a mio avviso tra le più salienti. Il primo autore, Luca Taddia, un giovane con la passione del dialetto e delle tradizioni popolari, ha composto Zirudèla Covid 19:
Zirudèla dal Corona,/che al bisest finché al bastona, l’é un bistién, na nuitè/che in tal Vînt al s’à ciapè.
Chi puvrétt cla gh’é tuchèda/l’é ’na zèrta tribulèda: s’at va bèn l’é un fardurâz/mo in dimôndi i àn pighé i strâz.
Dai cinîs la pèr tachèda/stê sturiâza acsé sfighèda,/pò tótt al mònd, in t’un s-ciòc ad dîda/al s’é catè a man stê brótta partida.
Peste, colera, vaiolo e spagnola/i parîvan quìa da lébar ad scòla./An cardîva ai nûstar tîmp/pséss pasèr stê patimînt!
(Zirudella del Corona,/che il bisestile, finché bastona/è un bestiolino, una novità/che nel 2020 ci ha preso.//(Per) Quei poveretti a cui è toccata/è una certa tribolata:/se va bene è un raffreddoraccio/ma in molti hanno piegato gli stracci (sono morti).//Dai cinesi sembra “attaccata” (iniziata)/questa storiaccia così… sfortunata,/poi tutto il mondo, in uno schiocco di dita/si è trovato a mano questa brutta partita./Peste, colera, vaiolo e spagnola/sembravano cose da libri di scuola./Non credevo ai nostri tempi/potessi passare questi patimenti!).
Dopo encomi a dottori e infermieri ed avere espresso un po’ di “brontolio” per la quarantena, così conclude con ottimismo:
A sperèn sôl ch’l’istè la sépa pió bèla/e ticu dai la Zirudèla.
(Speriamo solo che l’estate sia più bella/e ticu dai la Zirudella).
Il secondo poeta, Bruno Bertelli, è un veterano di questa forma poetica. Per non urtare la suscettibilità del virus, non l’ha voluta definire zirudèla e, per la sua Corona Virus rex, ha usato la rima alterna, eliminando le formule iniziali e finali tipiche della tradizione popolare:
Ma guèrda ciô cûsa al pòl fèr/un bistiulén che t’a n’al vèd,/l’é un quèl ach fa danèr,/cal dà brévìd, zîl e frèd.
Ló al stà lé cmé un mandrél,/al spèta d’èsar bèn piazè/e as riprodûs a mél e mél/e pò ló ’s sînt l’incoronè.
Nuêtar a sèn tótt impotînt,/a sèn ché senza difesa,/as vén pòra, as trèma i dint/srè in ca sèmpr’in attesa.
Un quecdón, e forse ènch dû,/tótt i dé i lâsan ’stó mònd/e dai nutiziari – l’é risapû -an sèn gnènch ’rivê al fònd.
(Ma guarda, veh, cosa può fare/un bestiolino, che non lo vedi,/è un qualcosa che fa dannare/che dà brividi, gelo e freddo.//Lui sta lì come un mandrillo, aspetta di essere ben piazzato/e si riproduce a mille e mille/e poi lui si sente incoronato://Noialtri siamo tutti impotenti,/siamo qui senza difesa,/ci viene paura, ci tremano i denti/chiusi in casa sempre in attesa.//Qualcuno, e forse anche due,/tutti i giorni lasciano questo mondo/e dai notiziari – è risaputo – non siamo neanche arrivati al fondo):
La conclusione è finalizzata a una sua morale:
Se a sèn tótt in tla stèssa bèrca/alôra a vôl dîr ca sèn fradìa/sperèn che tótt ’stó quèl al mèrca’na nôva strèda,’na nôva vìa.
(Se siamo tutti nella stessa barca/allora vuol dire che siamo fratelli/speriamo che tutto questo marchi (segni)/ una nuova strada/una nuova via).
Ancora una volta, quindi, quando meno te l’aspetti, la tradizione e il dialetto riaffiorano e si dimostrano in grado di commentare gli eventi del nostro tempo!