Dalla Bassa all’Appennino, ogni paese ha il suo campanile
(pubblicato nel numero uscito nell’inverno 2012)
di Michelangelo Abatantuono
Ogni paese ha la sua chiesa e ogni chiesa ha il suo campanile: è vero tanto in pianura quanto in montagna e addirittura borghi piccolissimi accanto alla propria chiesetta sfoggiano un’ardita torre campanaria. Non a caso la rissosità che un tempo (ma talora anche oggi…) divideva le frazioni di un territorio comunale o borgate vicine si definisce campanilismo, ad indicare come l’emblema di ogni comunità stesse nel campanile della propria chiesa e come ogni borgo fosse morbosamente attaccato al proprio fazzoletto di terra, quasi una società a sé stante in perenne competizione con quelle attorno.
Già nel medioevo era diffuso l’uso delle campane, spesso dal corpo più stretto e allungato rispetto a quelle moderne, e in montagna venivano collocate su piccoli campanili a vela, strutture non autonome che poggiavano sui muri perimetrali degli edifici religiosi. Ne rimangono ancora oggi alcuni esempi ed erano diffusi soprattutto in epoca romanica. Col passare dei secoli e il relativo miglioramento delle condizioni economiche delle vallate montane, si diffusero le torri campanarie, sopra le quali ogni comunità faceva a gara nell’accaparrarsi il miglior concerto di campane che fosse possibile.
La composizione classica richiedeva quattro campane, variamente intonate, e fu naturale evoluzione quella di voler affinare l’arte di suonarle.
Le nostre valli pullulavano un tempo di squadre di arditi campanari, che animavano una vivace competizione tra borgo e borgo: il suono delle campane rimbalzava da un angolo all’altro della valle e tutti potevano valutare l’abilità degli esecutori. Abilità che dava pieno sfoggio di sé soprattutto in occasione delle feste patronali, che scandivano l’anno contadino e raccoglievano un vasto concorso di popolo dalle località vicine, che accorreva per assaporare le rare occasioni di svago e di divertimento che l’amara vita di un tempo consentiva. Vi erano poi i campanari – per così dire – feriali, quelli che suonavano le campane tutti i giorni, per scandire i momenti della giornata e invitare alle funzioni liturgiche.
Ora quel mondo è pressoché scomparso, complici i mutamenti subiti dalla nostra società nell’ultimo cinquantennio e l’uso – deprecabile o meno, non sta a me giudicare – di automatizzare il meccanismo campanario, in modo che risulta difficile, se non impossibile, agire manualmente. Talora però, come ogni buon circuito elettronico, il meccanismo impazzisce e, invece di accompagnare degnamente qualche parrocchiano all’ultimo saluto, partono i doppi. V’è però da notare che anche in passato accadevano tali inconvenienti, dovuti non tanto all’elettronica, di là da venire, quanto al soverchio consumo di vino, immancabile compagno dei rudi uomini di un tempo.
In alcune zone la tradizione campanaria è rimasta viva, come nella valle del Savena: qui ci sono ancora diverse squadre di campanari che con rara abilità sanno trarre dai pesanti bronzi incantevoli suoni e non è rara l’occasione di poterli ascoltare.
Ma non c’è campana senza campanile e, se per costruire chiese e cappelle spesso ci si affidava a maestranze locali, per edificare alte torri era necessario rivolgersi a personale specializzato. Soprattutto nel corso dell’Ottocento, quando l’altezza dei campanili aumentò rispetto all’epoca precedente e molte torri antiche vennero sopraelevate o ricostruite dalle fondamenta, per seguire le ambizioni dei curati e delle loro comunità. Sorsero allora costruzioni alte anche più di 50 metri e lo stile architettonico di riferimento divenne quello neoclassico, variamente reinterpretato da ogni architetto, ingegnere o capomastro, figura quest’ultima che un tempo riuniva in sé la conoscenza teorica e la perizia tecnica manuale, in un virtuoso connubio.
Dalla sapienza dei capomastri si elevò, nel corso di alcune generazioni, la famiglia dei Brighenti, ai quali si devono molti dei campanili che ancora oggi possiamo ammirare in provincia di Bologna. Un ramo della stirpe si specializzò poi nella produzione di campane, realizzando tra XIX e XX secolo alcuni dei migliori concerti che si possono ascoltare.
Forse di origine irlandese, la famiglia fin dal Medioevo pare attiva nel campo edilizio, ma il primo di cui si possiedono notizie certe è «mastro» Sebastiano, che visse a San Martino in Argine nel Seicento. Nel secolo successivo il pronipote Domenico Maria si trasferì a Budrio e fu muratore, attività che passò al figlio Sebastiano, di cui ci rimangono alcuni progetti. I Brighenti, trasferitisi poi a Bologna, non costruirono solo chiese o campanili, ma anche altri palazzi e fabbriche. Rimanendo in campo ecclesiastico, ben 52 sono gli edifici in provincia di Bologna, chiese o campanili, progettati, realizzati o nei quali è riscontrabile l’opera dei Brighenti. L’area di attività si estese da San Vincenzo e San Venanzio di Galliera, verso il ferrarese (dove furono attivi anche a Cento) fino a Baragazza e Boschi di Granaglione, sulle ultime pendici montuose a confine con la Toscana. L’esponente più attivo fu certamente Giuseppe, vissuto pressappoco tra il 1810 e il 1870, il quale fu poi affiancato dal figlio Vincenzo.
In montagna le realizzazioni della famiglia sono numerose e si estendono in quasi tutte le vallate: Pieve del Pino di Sasso Marconi (ristrutturazione della chiesa), Santa Croce di Savigno (chiesa), Monte Pastore di Monte San Pietro (chiesa), Monte delle Formiche di Pianoro (chiesa?), Borgo Tossignano (campanile), Anconella di Loiano (chiesa), Tolè di Vergato (chiesa), Monzuno (chiesa, guglia del campanile?), Castel del Rio (campanile), Montorio di Monzuno (chiesa), Monte Acuto Vallese di San Benedetto Val di Sambro (chiesa e campanile), Vidiciatico (chiesa), Gaggio Montano (chiesa), Boschi di Granaglione (campanile), Baragazza di Castiglione dei Pepoli (campanile), Santuario di Bocca di Rio (Baragazza, parere per restauro della facciata).
Il gusto dei Brighenti fu essenzialmente classicheggiante, con richiami eclettici: singolare, ad esempio, la guglia del campanile di Monte Acuto Vallese, che ricorda nelle forme globulari soluzioni tipicamente nordiche. Seppero acquisire conoscenza e sapienza sul campo e attraverso il personale studio di riproduzioni di opere classiche, egizie, greche e romane e di capolavori rinascimentali che ancora adesso sono conservate nell’archivio della famiglia. Il riferimento alla classicità fu una costante che accomunò diverse generazioni, tanto da riflettersi anche nelle tecniche edilizie e nella scelta dei materiali, orientate più verso la tradizione che all’innovazione: anche gli ultimi esponenti, pur conoscendo l’uso del ferro e del cemento armato, non ne sfruttarono il linguaggio e le nuove potenzialità: “erano costruttori non accademici, ma seguivano i modelli classici sui quali si erano formati”. Non che fosse un difetto, possiamo affermare ammirando le svettanti torri campanarie che – in alcuni casi – da oltre centocinquant’anni arricchiscono le nostre valli.