Carléń Brigàtta, poeta popolare

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Le tradizioni popolari della pianura bolognese tra fede, storia e dialetto

di Gian Paolo Borghi
(pubblicato sul numero uscito nell’estate 2019)

Il mondo popolare ha sempre tenuto in grande considerazione i suoi rapsodi, figure spesso in grado di vivacizzare importanti momenti di vita comunitaria, dai matrimoni alle feste private, dal Carnevale alle sagre paesane. Tra questi, uno in particolare ha goduto di una rilevante popolarità, non soltanto per la qualità dei suoi versi, ma anche per il suo impegno educativo nei confronti dei compaesani: si tratta di Carlo Brighetti (1874-1952), per tutti Carléń Brigàtta. Dobbiamo la sua scoperta all’etnografo bolognese Armide Broccoli (1923-1992) che, grazie ai figli di Carléń, viene in possesso di vari quaderni scolastici con sue composizioni.

Il “nostro” poeta, contadino nella pianura bolognese, consegue successi popolari soprattutto dalla fine dell’Ottocento agli anni della Grande Guerra. Durante il ventennio, di fatto, gli verrà preclusa la sua attività in pubblico, che poi potrà riprendere sia pure per pochi anni dopo il secondo conflitto mondiale.
Carlo Brighetti trascorre i primi anni della sua vita a Volta Reno di Argelato dove la sua famiglia lavora nella grande tenuta dei marchesi Sampieri Talon. Come capitava in gran parte (per non dire in tutte…) delle famiglie mezzadrili, anche per Carléń non c’è la possibilità di andare oltre i primi studi elementari. Fin da bambino viene quindi avviato ai lavori della campagna, ma la sua innata abilità poetica lo porta ugualmente a scrivere, in rima, su vari temi a lui noti quali il Carnevale, le feste contadine, i piccoli avvenimenti della quotidianità. Porta con sé, nei campi, una matita e un pezzetto di carta con i quali “fissa” appunti e rime che di frequente gli passano per la testa. Di sera, al lume di candela, prosegue a scrivere fino a tarda ora: quando compone, non sa cosa sia la stanchezza!

“Nascono” così decine e decine di zirudèle che recita con successo alle feste da ballo, alle fiere paesane, alle serate a “trebbo” (a trȃb) nelle stalle; tutti pendono dalle sue labbra e attendono le sue rime umoristiche, il suo spirito allegro e fantasioso, i suoi abili giochi di parole. Nonostante le affermazioni, non perde tuttavia la modestia e, spesso, dichiara al suo pubblico: Se ai è di erûr am pardunarî / parché a sòń un cuntadéń / e al mî stûdi l è pôch féń!  (Se ci sono degli errori mi perdonerete/perché sono un contadino/e il mio studio è poco fino!).

A chi però dubita del suo estro poetico, così replica: Nò, sgnourló, l è tótta ròba mî/anche se a sòń un cuntadéń da cȃp a pî! (No, signore, è tutta roba mia/anche se sono un contadino da capo a piedi!).
Carlo Brighetti non si limita alla sola battuta umoristica fine a se stessa, ma cerca di contribuire all’educazione popolare stigmatizzando vizi, difetti e ingiustizie sociali della sua epoca facendo uso di un’ironia semplice e proprio per questo incisiva. Queste sue attitudini sono messe in evidenza in modo particolare nei cosiddetti “processi alla Vecchia” (in origine legati ai riti di mezza Quaresima), che nella Bassa bolognese erano stati trasformati in spettacoli in occasione di sagre e di feste patronali. I “processi” consistevano in un fitto contraddittorio in rima tra “giudice” e “difensore” per giudicare una “vecchia” (rappresentata da un fantoccio), accusata di vari reati. Le rappresentazioni si concludevano con la sua condanna al rogo (in origine era un rito propiziatorio di fertilità per la nuova annata agraria), preceduta da un “testamento”, con il quale si mettevano alla berlina vari “personaggi” del paesi interessati. Carléń Brigàtta indirizza gli spettacoli sul piano sociale, senza tuttavia venire meno agli effetti scenici previsti dalla tradizione.

In un processo da lui scritto nel 1897 e pubblicato da Armide Broccoli sulla rivista “Il Cantastorie” del 1981, fa esclamare al “giudice” dopo un tentativo di corruzione operato dall’“avvocato difensore” della “Vecchia”: Mo quȃsta qué l é coruziòń, / l é al môd ed ragiunèr / ed quî ch mȃgna int al buclèr! (Ma questa è corruzione,/è il modo di ragionare/di quelli che mangiano nel truogolo [i maiali!]). Avverte ancora il “giudice”: Bisògna avrîr i ûc e stèr in urȃccia / s nò qué a se stà sèmpar sȃtta / e ciamèr còń al sô nóm / al mèlfat e al mèl custóm (bisogna aprire gli occhi/e stare in orecchio/se non qui si sta sempre sotto/e chiamare con il loro nome/le malefatte e il malcostume). Parole, forse, non fuori moda neppure oggi.

Ai primi del ’900, Carléń si trasferisce a Granarolo e, in seguito, a Maddalena di Cazzano, nelle campagne di Budrio, dove nel 1919 viene eletto capolega dei contadini. Con l’avvento del fascismo, è oggetto di continue vessazioni che lo costringeranno ad interrompere il suo lavoro a favore dell’emancipazione popolare. Dopo avere collaborato al movimento resistenziale, alle fine degli anni ’40 ritorna a declamare le sue zirudèle. Scompare a Granarolo nel 1952. Il suo ultimo testo dialettale, vero canto del cigno, è dedicato al tema della pace. Il Comune di Argelato gli ha dedicato un giardino in località Volta Reno, vicino a quella campagna che lo ebbe giovane contadino e poeta.

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