Da qualche anno una targa davanti alla sede della Facoltà ricorda i crimini nazisti consumati nelle stanze dell’edificio fuori porta Saragozza inaugurato nel ‘35
di Serena Bersani
Soltanto pochi anni fa, nel novembre del 2016, con colpevole ritardo, è stata collocata all’ingresso della facoltà di Ingegneria di via Risorgimento una lapide che ricorda la vergogna degli orrori consumati durante l’ultima guerra dai nazisti che l’occuparono, con la complicità di un gruppo di criminali fascisti e il tacito consenso del rettore e di alcuni docenti. Si legge inciso sul marmo: «L’Università di Bologna con dolore e indignazione ricorda che questi luoghi destinati alla scienza e al magistero furono barbaramente sottratti alla loro missione da nazisti e fascisti (1943 – 1945) che nel complice silenzio della comunità accademica li trasformarono in luoghi di pena e di tortura per i nemici della tirannide. Edifichiamo il futuro non immemori del nostro passato».
C’è voluto moltissimo tempo perché quelle storie di torture, di violenze sessuali e di uccisioni acquistassero spazio nelle cronache e nei (pochi) libri di storia sull’argomento. Le ragioni di questa rimozione sono da ricercare anche nella scarsa informazione che si ebbe di quanto accaduto nelle aule di Ingegneria. A guerra finita, i quotidiani cittadini diedero risalto agli arresti e ai processi dei fascisti, ma solo in un articolo del Giornale dell’Emilia del 1948, dedicato a un torturatore che risultava latitante (il famigerato capitano Gaspare Pifferi), si cominciò a far cenno a ciò che era avvenuto in via Risorgimento negli ultimi anni di guerra. Anche il linguaggio utilizzato all’epoca contribuì a mistificare l’accaduto, attraverso l’utilizzo di eufemismi e giri di parole come “tecniche di interrogatorio” anziché torture e violenze.
La ricostruzione di quegli avvenimenti si è dovuta basare quasi esclusivamente sulle testimonianze e sulle scarse cronache giornalistiche, non essendo stati ritrovati registri dei prigionieri nei locali della facoltà né essendo presenti gli atti dei processi nell’Archivio di Stato di Bologna. Gli stessi protagonisti di quei giorni terribili, uomini e donne che subirono torture indicibili, furono i primi a essere reticenti, a non voler raccontare l’orrore, con un atteggiamento simile a quello dei reduci dai campi di concentramento.
La prestigiosa Scuola d’Ingegneria di Bologna era stata inaugurata nel maestoso edificio razionalista di chiara ispirazione littoria, alle pendici della collina subito fuori porta Saragozza, il 28 ottobre 1935, per commemorare la marcia su Roma.
Dopo l’8 settembre 1943 i repubblichini cominciarono ad occuparne le aule e, a partire all’ottobre 1944, divenne la sede del Comando della LVII Legione Camicie Nere e poi del Comando provinciale e dell’Ufficio politico investigativo della Guardia Nazionale Repubblicana. Le aule e le sale studio divennero camere di tortura, abbastanza isolate dal resto della città da non far udire le grida di chi subiva violenze ininterrotte per giorni e giorni e da non far trapelare le azioni inumane che vi venivano compiute. A finire in quel girone dantesco erano in primis i partigiani catturati a cui si volevano estorcere nomi e indirizzi, ma anche semplici cittadini rastrellati per strada soltanto perché non indossavano la camicia nera o avevano compiuto qualche gesto di disprezzo. Chi sopravviveva alle torture del mattatoio di via Risorgimento finiva nelle carceri di San Giovanni in Monte per poi essere deportato o fucilato.
Tra i prigionieri rinchiusi nelle camere di tortura di Ingegneria vi furono i partigiani catturati dopo la battaglia di Porta Lame del 7 novembre 1944 e dopo quella della Bolognina del 15 novembre. Tra le vittime di tanta barbarie ci furono anche diverse donne, alle quali toccarono, oltre alle torture, le umiliazioni, gli abusi e le violenze sessuali. Per le camere di tortura di Ingegneria passarono contadini, impiegati, studenti, artigiani, ferrovieri, ma anche una domestica, una casalinga e una commessa. Il più giovane aveva solo quindici anni, il più anziano cinquantadue. Otto di loro vennero uccisi, sette appena un mese prima della Liberazione. Di queste pagine buie si seppe poco o nulla nel dopoguerra, soprattutto per la comprensibile ritrosia delle vittime a denunciare l’accaduto. I rari processi si svolsero a porte chiuse, come quello che vedeva come parte lesa la staffetta partigiana “Stella” di cui i giornali dell’epoca si limitarono ad accennare al fatto che «venne sottoposta a un trattamento inumano e crudele» e che «fu costretta ad atti lubrici da parte di cinque militi». Le vittime di Ingegneria, soprattutto le donne, vennero rese invisibili. Se ne ricorda solo una, la ex staffetta partigiana “Vienna” che, dopo essere stata catturata, passò dall’altra parte e, nel suo ruolo di spia, contribuì all’uccisione di tanti ex compagni. Finita in carcere dopo la guerra, venne liberata nel 1948 dall’amnistia di Togliatti.
I protagonisti degli orrori di via Risorgimento si chiamavano Gaspare Pifferi, Martino Berti, Bruno Monti, Giovanni Pasquale Camporesi. Il loro capo era Angelo Serrantini, colonnello della Guardia Nazionale Repubblicana. Le torture a cui sottoponevano i prigionieri andavano dalle scudisciate alle maschere antigas tappate, ai ferri roventi sul corpo. Un malcapitato fu costretto a sedersi su di un fornello elettrico acceso e gli vennero calpestati i piedi nudi con gli scarponi chiodati. Tra gli appartenenti a corpi operanti in funzione antipartigiana che furono condannati a morte a Bologna dopo la Liberazione, solo uno venne fucilato al poligono di tiro di via Agucchi il 2 ottobre del ‘45: il capitano Renato Tartarotti che, al comando della Compagnia autonoma speciale, si era reso responsabile di torture, pestaggi, requisizioni, estorsioni, violenze efferate e condanne a morte. Tra queste ultime, c’era anche quella di Irma Bandiera.
Dopo l’8 settembre i fascisti di Salò penetrarono anche nell’Università tanto che, quando vennero costituite le Brigate Nere, un medico docente della facoltà di Medicina, Franz Pagliani, divenne comandante della Brigata Mobile “Pappalardo”. Nel dopoguerra rimase in carcere pochi anni, poi divenne un importante esponente del Msi. Nell’Ateneo non mancavano anche professori convintamente antifascisti, tra cui il famoso ingegnere Odone Belluzzi, docente di Scienza delle costruzioni, ricordato con una lapide nell’atrio della facoltà. Nel primo cortile di Ingegneria vi è anche una lunga lapide che ricorda i nomi degli studenti morti durante la Prima guerra mondiale. Per quel che fu permesso fare nell’edificio tra il 1944 e il 1945 è sceso invece per molto tempo il silenzio. Se alcuni libri non riportassero le tragiche testimonianze di chi in quelle stanze subì trattamenti indicibili oggi forse questa storia sarebbe scivolata nell’oblio. Abbiamo dovuto attendere più di settant’anni per vedere scritto sulla pietra, a futura memoria, questa pagina nera del dominio nazifascista. Una verità da ricordare ogni primavera che ritorna.