La saggezza della cultura contadina nei proverbi di una vola
di Adriano Simoncini
(pubblicato nel numero dell’estate 2011)
A ognún e só mistér
e i cuntadín a méder
A ognuno il suo mestiere
e i contadini a mietere.
Detto spregioso che consegnava il contadino alla bruta manualità e per farlo sceglieva, fra tutti i gesti dell’anno agricolo, quello della mietitura. Mietere rappresentava infatti la maggior fatica cui era chiamata la gente dei campi. In piena estate, curvi per ore e ore sotto e sól aglión / il solleone, a torso nudo gli uomini o con una maglia dalle mezze maniche, il largo cappello di paglia in testa che non accadesse di prendersi un’insolazione mortale, si recidevano con e séguel, il falcetto, gli steli del grano a un palmo da terra – perché anche la paglia serviva, non solo i chicchi, per la treccia, per la lettiera e il mangiare delle bestie nella stalla.
Le donne facevano la loro parte accanto agli uomini, ma si guardavano bene dall’offrire la pelle al sole, soprattutto del viso: l’abbronzatura le avrebbe a colpo d’occhio distinte dalle signore dal volto candido, moglie e figlie dei padroni, che l’estate sedevano in chiacchiere all’ombra degli olmi attorno a casa, magari col ventaglio a meglio difendersi dalla calura, senza aver altro da fare che dare ordini alle serve contadine.
Quent lói e vén
o paia o fén
Quando luglio viene
o paglia o fieno.
Falce o falcetto, frina o séguel, erano cioè gli attrezzi più usati fra giugno e luglio. Perché approfittando del fatto che in pianura il grano maturava almeno quindici giorni prima che in montagna, i nostri montanari scendevano al piano a óvra, a opera. Partivano al calare della sera e col falcetto in mano camminavano per ore in direzione del mare, in modo d’essere all’alba sulla piazza dei grossi paesi di Romagna, dove sarebbero convenuti per assumerli a giornata i fattori e gli arzdór / i reggitori dei poderi attorno, che avevano le messi già gonfie e gialle di spighe. Due settimane e si tornava a casa con qualche lira: li attendeva il proprio campo. Per fortuna che
quàter
dòp e méder
e vén e bàter
quattro
dopo il mietere
viene il battere,
cioè il trebbiare. Era un detto che accompagnava il battere del pugno sul tavolo nel gioco delle carte, preteso forse dalla rima, che tuttavia indicava il sollievo d’aver concluso la mietitura e di raccogliere finalmente il frutto delle fatiche di un anno, fino all’ultimo in balia del cielo (ancora a luglio una grandinata o un urvài, una tempesta, potevano distruggerlo). Perché
quent e grèn l’è in ti chèmp
l’è de Sgnór e di Sènt
quando il grano è nei campi
è del Signore e dei Santi.
La sera dunque i vecchi interrogavano la busa dla iacma, scrutavano cioè l’orizzonte a ponente, che non comparissero nubi maligne. Nel caso le donne tenevano pronto l’ulivo benedetto da bruciare nell’aia su una paletta di brace. Se davvero l’indomani le nubi si fossero abbuiate in tempesta, il parroco sarebbe uscito sul sagrato in cotta e stola con l’aspersorio dell’acqua santa per benedire con ampi gesti i nembi in arrivo, mentre gli uomini sarebbero corsi al campanile per suonare a stormo e allontanare il fortunale. Del resto la credenza secolare spiegava tuoni e fulmini che squassavano il cielo con l’affermazione: l’è al dièvel che va in caròza / è il diavolo che va in carozza. Dove il diavolo altri non era che il pagano Zeus, signore appunto del fulmine.