La saggezza della cultura contadina nei proverbi dell’Appennino
di Adriano Simoncini
Ai éren in sèt a ber un óv
e a cla vecia adòp a l’óss
ai tuché d’alchèr e gós.
Eravamo in sette a bere un uovo
e a quella vecchia dietro l’uscio
le toccò leccare il guscio.
Detto montanaro che in estrema sintesi racconta la diffusa miseria d’un tempo. Come che sia, a Trasasso il lunedì di Pasqua veniva solennizzato con quaranta ore di adorazione al Santissimo Sacramento, una processione con l’ostensorio e la predica delle anime del Purgatorio. Era una festa conosciuta e rinomata in tutta la valle: accorrevano fin da Loiano e da Monghidoro, magari soltanto per partecipare a e scuzèt e a e ruzlín. Fra gli eventi ‘pagani’, cioè non religiosi, erano infatti previsti due giochi con le uova sode, profittando dell’occasione che in primavera le galline ricominciavano a darne in quantità. Si trattava di gare in cui si misuravano gli uomini, soprattutto giovani e ragazzi, bastava avere almeno un paio di uova in tasca.
Lo scuzèt (o scuzlèt o scuzlín, vocabolo che derivano da scuzlèr / rompere) si svolgeva a coppie nel modo seguente: a per a pec’, il pari vincente picchia, si decideva chi dei due giocatori doveva ‘battere’ col proprio uovo quello dell’avversario. Chi riceveva stringeva in pugno il suo cercando di offrirne al battitore solo la punta e comunque la minor superficie possibile – la punta era la parte del guscio più resistente, per cui nella scelta delle uova ‘da gara’ si cercavano quelle più appuntite. E cominciavano subito le dispute: “bat pér / batti pari”, cioè senza trucchi, pretendeva il ricevente; “dam dl’óv / dammi dell’uovo”, reclamava a sua volta il battitore contestandogli di mostrare di fatto solo le dita. L’altro ovviamente protestava il contrario e intanto allargava di un micromillimetro la vista del proprio guscio, mentre il battitore saggiava pian piano tutt’attorno l’uovo da picchiare… Poi all’improvviso colpiva col proprio, per una volta sola, l’uovo antagonista. Quello dei due che risultava scuzlà / screpolato era il perdente e diventava legittima proprietà del vincitore. Se entrambe le uova rimanevano intatte, si riprendeva la gara scambiando i ruoli: il battitore diventava ricevente.
La gara del ruzlín (o ruzlèt) si svolgeva lungo un prato in declivio – l’erba a Pasqua era ancora breve e le uova potevano ruzzolare (ruzlín deriva infatti ruzlèr / ruzzolare). I concorrenti si radunavano in cima al prato dove un coppo indicava l’inizio del percorso e a pari o dispari si stabiliva l’ordine di partenza. I primi posti erano i meno favoriti. Uno alla volta, ciascuno lasciava rotolare lungo il pendio il proprio uovo, che s’arrestava su un tratto pianeggiante o in una buca. Le uova rimanevano nel prato fino a che le sopravvenienti non le colpivano, il che dava diritto a farle proprie. Il gioco durava ore, con decine di uova sparse nell’erba.
Una variante consisteva nel far rotolare a terra, a turno, il proprio uovo: chi arrivava più lontano vinceva e guadagnava tutte le altre. Si poteva gareggiare anche a coppie contrapposte, nel qual caso i vincitori dividevano a metà il bottino. Al contrario di quanto avveniva allo scuzèt, per il ruzlín si sceglievano uova il più possibile rotonde che, come una palla, sarebbero ruzzolate lontano. Ma se ti si spaccava l’uovo lungo il percorso perdevi comunque, e siccome le prove da disputare erano obbligatoriamente cinque, ne conseguiva che a sera risultava vincitore chi aveva più uova a disposizione.
A Trasasso ricordano un tale che ogni anno portava a casa cesti di uova, vinceva ovunque tutti i scuzèt. Alla fine fu scoperto: iniettava calce dentro il guscio.
Mario della Ca’ – che ci ha raccontato questi fatti – la sera di Pasqua cuoceva un panierone di uova per studiare quali fossero le più dure o le più tonde e giocarsele il lunedì a scuzètt e ruzlín. E a volte, ci diceva ridendo, tornava a casa col panierone vuoto, anche perché poi le mangiavano accosciati nel prato, bevendoci sopra. Infatti
l’όv bendèt’è bόn enc dop Pasqua
l’uovo benedetto è buono anche dopo Pasqua.