Le tradizioni popolari della pianura bolognese tra fede, storia e dialetto
di Gian Paolo Borghi
Severino Ferrari (1856-1905) è stato tra i più fecondi studiosi del suo tempo: poeta, critico letterario, filologo, docente (ha coadiuvato Giosuè Carducci all’Università di Bologna, dopo essere stato suo valente allievo), si è interessato con competenza anche di importanti aspetti di poesia popolare e “semi popolare” italiana, sulla scia delle metodologie adottate da Alessandro D’Ancona, Giosuè Carducci e Pio Rajna. Importanti sono, ad esempio, i contributi che pubblica sui prestigiosi periodici “Il Propugnatore” e il “Giornale di filologia romanza”, a testimonianza, in particolare, che diversi canti eseguiti dal popolo nell’Ottocento risalivano a secoli anteriori.
Nato ad Alberino di San Pietro Capofiume (è stato definito Il rosignolo di Alberino), nelle vicinanze di Molinella, resta profondamente legato al suo borgo nativo, nonostante la lontananza dovuta ai trasferimenti, come insegnante, in varie città italiane. Al suo paese dedica uno studio pionieristico per quegli anni, i Canti popolari in San Pietro Capofiume, che trova ospitalità a puntate sulla rivista specializzata “Archivio per lo Studio della Tradizioni Popolari” (1888, VII; 1889, VIII; 1891. X). Questo suo lavoro attesta la presenza di testi di rilevante importanza nella realtà di confine di San Pietro Capofiume che, come scrive lo studioso in alcune note introduttive, è “un piccolo paese della provincia di Bologna, dove questa da una parte termina col Ferrarese, e dall’altra si avvia verso la Romagna”. Severino Ferrari pubblica e commenta i canti raccolti annotando che non sono nati localmente, ma che “vi furono importati; la maggior parte arrivarono per la via del Veneto, della Marca e dalla Toscana; da regioni adunque, ove il substrato celtico non c’è o non domina”. Si tratta di un significativo numero di documenti, dalle ballate alle “romanelle” (brevi canti in quattro endecasillabi, tipici dell’Emilia), trascritti nella “forma genuina con che a me furono cantati”.
Tra le ballate, spicca Donna Lombarda, notissima in ambiti nazionali, i cui versi iniziali sono i seguenti:
Amami me! Donna lombarda amami me, amami me.-
Non posso farlo, sacra corona, ch’ai ho maré, ch’ai ho marè. –
Fallo morire tuo marito, fallo morire t’insgnarò me. –
Altrettanto conosciuta, la versione locale de L’uomo piccolino, presente anche in una composizione di Giulio Cesare Croce, l’autore delle “storie” di Bertoldo:
Ai era un umarein
grand e gros com un luvein.
Al vols fer una furlända
sotta un cappucciol d’gianda,
tant l’era picculèin.
(Cera un omettino/grande e grosso come un lupino./Volle fare una furlana [danza contadina]sotto un cappuccio di ghianda,/tanto era piccolino).
Concludo gli esempi con tre testi di romanelle (al rumanèli):
Mi è stato detto che tu fai la spia,
o lingua di serpente avvelenata.
Vorresti dir di me quando non sai:
pensa di te, allor di me dirai.
Mi son inamorà de l’Angioletta
e il suo papà non me la vuole dare,
o dio del ciel! mandäi una saietta!
[mandategli una saetta!]
fug [fuoco]al palaz, e fuori l’Angioletta.
Tu sei pur bela il lunedì mattina,
sempre più bella il martedì seguente,
e il mercoldì mi pari una bambina,
il giovedì una stella rinocente [rilucente].
Amico fraterno del Carducci e di Giovanni Pascoli, la sua vita si interrompe precocemente in un ospedale psichiatrico pistoiese.