Sandròń Spaviròń da San Pietro in Casale

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Le tradizioni popolari della pianura bolognese tra fede, storia e dialetto

Gian Paolo Borghi

È tempo di Carnevale e nella pianura bolognese le sfilate si susseguono anche nei paesi più piccoli. Alcuni corsi carnevaleschi hanno origine ottocentesca, come quelli di San Giovanni in Persiceto, San Matteo della Decima, Pieve di Cento e San Pietro in Casale. I riti agrari di fertilità connessi al Carnevale e alle sue manifestazioni sono ovviamente più antichi, ma l’attuale assetto organizzativo trae le sue origini all’epoca postunitaria, con un nuovo ceto emergente che cerca (non sempre riuscendovi) di imprimere stimoli culturali diversi trasformando il Carnevale in festa civile urbana, per superare una cultura di tradizione, tipica dei mondi rurali, ritenuta ormai un antico relitto.

Ogni Carnevale ha la sua storia, come quello di San Pietro in Casale, che risale al 1870, grazie all’impulso di un gruppo di buontemponi abbienti, che decide di dotarsi di un re del Carnevale; la loro scelta cade su Sandròń Spaviròń (Sandrone Spavirone), una maschera di origine modenese, mutuata dal teatro dei burattini. Con ogni probabilità, l’ispirazione proviene dall’attività di quegli artisti girovaghi che lo hanno privilegiato come protagonista delle loro rappresentazioni. Sandrone fa parte della cosiddetta “Famiglia Pavironica” (che compone con la moglie Pulònia e il figlio Sgorghiguelo), il cui appellativo si rifà alla paviera, un’erba palustre tipica dei territori vallivi.

Sandròń assurge così al ruolo di sovrano del Carnevale di “San Pietro”, che si chiude con la sua condanna al rogo (resusciterà puntualmente l’anno successivo per riprendere il suo ruolo), preceduta dalla lettura del suo pubblico “testamento” a rima baciata, con i satirici “lasciti” ai cittadini di capi del suo vestiario (non senza polemiche di qualcuno colpito dai suoi strali) e con la puntuale lode alla rassegna carnevalesca appena conclusa. Non manca, a volte, qualche stoccata su ciò che non “funziona” in paese. I suoi “testamenti” sono rigorosamente in dialetto locale e, anno dopo anno, consentono di fare un po’ la cronaca “dal basso” del susseguirsi della vita sociale e di relazione di quella comunità.

Traggo da un recente volume (sono tra i curatori con Tiberio Artioli, Raffaello Cavicchi e Remo Zecchi) alcuni piccoli stralci di questi interessanti testi, che richiederebbero tuttavia ben più ampio spazio espositivo. Nel 1952, Sandròń porge il suo saluto ai cittadini con un testamento scritto e recitato dal poeta popolare Petronio Pescerelli, detto Marco:

L è col côr pén d comoziòń/ch’av salûta al rè Sandròń/e zitadén a vré psèir dîr/che con dspiasèir a lȃs San Pîr,/ste bèl paèis acsé bèl/ch’an s in trôva un ètr uguèl (È con il cuore pieno di commozione/che vi saluta il Re Sandrone/e, cittadini, vorrei poter dire/che con dispiacere lascio San Pietro,/questo paese così bello/che non se ne trova un altro uguale).

L’autore non si limita soltanto alle lodi del paese, ma si spinge anche provocatoriamente a confronti un po’ azzardati, ma di sicuro bene accetti da tutti i “sampierini”:

O amîg, st ȃn al Cranvèl/l é stè pròpria originèl/e s’andèn ed lóng acsé,/in st ètr ȃn, cardȇm a mé,/che nuètr a vdrèn a gnîr/quî d Viareggio a San Pîr (O amici, quest’anno il Carnevale/è stato proprio originale/e se andiamo avanti così,/il prossimo anno, credete a me,/che noi vedremo venire/quelli di Viareggio a San Pietro).
L’anonimo estensore del testamento del 1968 rivela il “segreto” del Carnevale di San Pietro in Casale:
Mé a ringrȃzi vivamènt/tótta quanta la mî zènt/che con ciûd e chèrta mójja/pûc baiûc e tanta vójja/i an vló dèr al mî paèis/tanta alegrî sènza pretèis (Io ringrazio vivamente/tutta quanta quella mia gente/che con chiodi e cartapesta/pochi soldi e tanta voglia/han voluto dare al mio paese/tanta allegria, senza pretese).
Nel testamento, sempre anonimo, del 1969, Sandrone lascia le sue scarpe a un personaggio locale, noto per la sua proverbiale avarizia:
Ai è un tizzio qué a San Pîr/ch’al n as fa mȃi vèddr in gîr/dala pòra che i quatrén/śbleśśghen vî dal catuéń (C’è un tizio qui a San Pietro/che non si fa mai vedere in giro/dalla paura che i quattrini/scivolino via dal portamonete).

Prima di essere bruciato, saluta i paesani e la moglie Pulònia, come nel “finale” del suo testamento del 1968:
L é arivȇ al mumintén/ch’as inpéjja al sulfanén/ e fra cant e bichirût/tributèn l ùltum salût.//E té, Pulògna, brîsa smarglèr/parchȇ st èter ȃn a vói turnèr/e a sént bèla Pasaròń/ch’l’è in arîv col caruzòń (È arrivato il momentino/che si accende lo zolfanello/e fra canti e bicchierotti/tributiamo l’ultimo saluto.//E tu, “Pulonia”, non piagnucolare/ché il prossimo anno voglio ritornare/e sento già “Pasaròń”/che è in arrivo col carrozzone).

Sempre attesa dal “suo” pubblico, questa ottocentesca tradizione è portata avanti ancora con successo pressoché immutato.

 

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