La saggezza della cultura contadina nei proverbi di una volta
(pubblicato sul numero uscito nell’estate 2012)
di Adriano Simoncini
Con l’estate nei borghi dell’Appennino esplodono le sagre. Il programma, religioso e pagano, è rituale: Santa Messa, processione con la statua del Patrono e banda musicale; poi, a seguire, divertimento ad oltranza. Vino, birra, dolci, crescentine, porchetta, balli con orchestre e, dal campanile, doppi di campane all’impazzata. A mezzanotte un botto improvviso, silenzio sulla piazza e spettacolari fuochi d’artificio ad accendere la notte. Sono le sagre della tradizione, le cui origini si perdono nel tempo, favorite dalla bella stagione e celebrate prima e dopo la mietitura del grano.
Nell’occasione baldoria e abbracci per tutti, paesani e forestieri. Ma non è stato sempre così. Fino agli anni ’50, infatti, in montagna si viveva di un’agricoltura sempre più povera man mano che si saliva verso i crinali e i prodotti della terra dovevano essere difesi dalle possibili scorrerie di appartenenti ad altre parrocchie. Di conseguenza, motteggi (e scazzottature) a veglie e feste. La memoria orale ne ha tramandati più d’uno.
Qualche esempio. A Qualto, borgo medievale che vanta su un architrave lo stemma dei Della Rovere, la sagra si festeggia il 15 agosto, per l’Assunta, e ci si andava e ci si va. Ma ecco cosa si diceva dei qualtarotti:
Qualtaròt a sé a sé
ien al diével sotta ai pé…
Qualtarotti a sei a sei
hanno il diavolo sotto i piedi…
La filastrocca continuava irridente, ma ne riportiamo solo due versi per brevità.
I qualtarotti, comunque, erano uniti come un pugno chiuso e uscivano insieme dal borgo pronti a tutto. A Montefredente, fra il Sambro e il Setta, si festeggia ancora San Giorgio, nonostante non sia più nel calendario, e anche là si va a baldoriare, che pure il detto recitava:
Munferdént
bona tera cativa zént
Montefredente
buona terra cattiva gente.
Fra le righe s’avverte l’invidia di boscaioli e pastori per i fertili poderi volti al sole dei contadini del posto. I quali rispondevano con un distico messo in bocca a un povero che mendicava: Ho girato tutto Lagaro, Ripoli, Santa Cristina, non ho trovato un’oncia di farina. Famosa e frequentatissima, oltre che aggiornata, la féra di sdaz/ la fiera dei setacci che ancora si svolge in settembre a Sasso Marconi. Ma il detto su Sasso era maligno:
al Sâs
strecca al cul e slonga al pas
il Sasso
stringi il sedere e allunga il passo.
Sasso sorge alla confluenza del Setta col Reno, luogo di passaggio obbligato dove ancora a fine ’800 s’appostavano, così si racconta, i briganti all’agguato dei viaggiatori. Altro borgo da cui guardarsi era Ca’ del Moro, nell’alto Savena:
Chi pasa Ca’ de Mòr
senza c’a s’inzèmpla
e pól andér a drét
fin in Frènza
Chi passa Ca’ del Moro
senza che s’inciampi
può andare diritto
fino in Francia.
A Monghidoro, più conosciuto allora come Scargalésen / Scaricalasino, si tenevano (e si tengono) le due fiere più importanti delle valli del Savena e dell’Idice, per San Pietro il 29 giugno e San Michele il 29 settembre. Vi convenivano montanari d’ogni parte e si sentiva dire di tutto. Ad esempio: quii ed la tera sénta/ quelli della terra santa, per spregiare la pietà bigotta degli abitanti di Campeggio, dove un nuovo santuario richiamava torme di pellegrini. O anche: quii ed la fòia tonda / quelli della foglia tonda, vale a dire coloro che vivono dove cresce il faggio dalla foglia rotonda, lontani cioè da strade e città e quindi rozzi e selvatici (come chi scrive, che se ne fa vanto).