MARCO BELINELLI, dopo 13 stagioni nella Nba, ha scelto la Virtus dove si era formato da ragazzino. Perché c’è un progetto, perché Bologna resta il porto sicuro e perché la Bassa è sempre la Bassa
testo di Marco Tarozzi
Una storia così, potremmo raccontarla con i contorni della favola. È quella del ragazzo che cresce in una gloriosa società della pallacanestro italiana, lascia intravedere un talento ancora in sboccio quando se ne va per affrontare altrove la sua vita da professionista; e poi quello stesso ragazzo, fatto uomo, torna a casa dopo aver recitato basket sui più importanti palcoscenici del mondo.
Ecco, in poche righe il viaggio di Marco Belinelli è questo. Svezzato alla Virtus, cresciuto da Marco Sanguettoli, maestro nel far maturare i giovani, nella mitica palestra Porelli, poi affermatosi in Italia sull’altra sponda della Città dei Canestri, quando il bianconero virtussino aveva perso tono e contrasti, infine protagonista nel magico mondo della Nba, il posto delle fragole per qualunque campione della palla a spicchi, dove si realizzano i sogni e si sistema anche il conto in banca. Lui, ragazzo di San Giovanni in Persiceto, quei sogni li ha realizzati, raggiungendo traguardi che nessun altro giocatore italiano ha mai neppure sfiorato.
E adesso il Beli torna a casa. Perché arriva un momento in cui il mondo che volevi conoscere l’hai visto tutto, e allora ascolti forte il cuore prima ancora della testa.
IL RITORNO
Parafrasando Michael Jordan, Marco ci ha subito scherzato sui social: “I’m back!”. Pochi immaginavano che avrebbe lasciato il campionato che gli ha regalato l’anello e il successo nella gara del tiro da tre punti all’All Star Game, in quel magico e indimenticabile 2014. Invece, dopo tredici stagioni oltreoceano, è arrivata la scelta di vita. Ritrovando casa, un posto che non ha mai davvero abbandonato, avrà certamente buttato l’occhio su quel vecchio canestro appeso al muro in cortile, su cui iniziò ancora bambino a fantasticare, immaginando un futuro che allora sembrava fantascienza. “Forse non lo degno più delle attenzioni che gli riservavo da piccolo”, ha riflettuto con un sorriso, “ma so che è lì, e so quello che ha significato per me”.
Una scelta di cuore, abbiamo detto, ma certamente la migliore possibile. “Nella Nba le offerte c’erano ancora, ma non erano quelle che avrei voluto, non mi davano le motivazioni giuste. Così, quando si è presentata la possibilità di tornare alla Virtus, l’ho presa al volo. Vedo un progetto solido, gente che ha la carica giusta, come l’ho io. Non mi aspetto di passeggiare nel campionato italiano, da cui manco da una vita, ma io non sono fatto per le cose facili, quelle mi tolgono motivazione. Per questo ho chiuso con l’esperienza americana, e non sarei onesto se dicessi che l’ho fatto senza rammarico, perché non trovare laggiù un contratto adeguato mi è dispiaciuto. Ma ho capito che era il momento di voltare pagina, e partire per un’avventura davvero nuova”.
SULLA PELLE
E poi c’è casa, appunto. Quell’aria buona che nessun emigrante, che sia di lusso o per necessità, può dimenticare. Marco è sempre stato così, quando ne aveva la possibilità faceva rotta verso Bologna, verso la sua San Giovanni tatuata sulla pelle proprio come il cappello da alpino di nonno Antonio, che impiantò quel primo canestro nel giardino di casa, dove quel ragazzetto lungo ed esile sfidava il fratello Enrico in duelli interminabili. Se lo ricordano tutti, il piccolo Marco col pallone sotto al braccio. Pochi fronzoli e idee chiare: “Da grande voglio fare il giocatore di pallacanestro”. Missione compiuta.
“Tornare a Bologna e nel mio paese, dopo una vita in giro per gli States, è un valore aggiunto. Sono contento io, è contenta Martina, mia moglie. Staremo vicini alla famiglia: avevo ventun anni quando ho preso l’aereo per San Francisco, è ora di riportare tutto a casa…”
LA CITTA’ DEI CANESTRI
Già, quell’addio all’Italia con proclama. Parole così precise che qualcuno, sull’altra sponda, ha digerito malissimo questo ritorno. “Un giorno tornerò per giocare a Bologna, e per una sola società: la Fortitudo”. Prima attenuante: in quei giorni del 2007, era quella la squadra che aveva fatto maturare Beli, portandolo a vincere lo scudetto nel 2005 e ad essere il miglior giocatore del campionato nella stagione successiva. Seconda attenuante: quando pronunciò quelle parole, Marco era un ragazzo di ventun anni, che in Europa aveva toccato il cielo con un dito giocando con i colori dell’Aquila. Oggi, trentaquattrenne con un’esperienza da veterano, probabilmente userebbe espressioni altrettanto riconoscenti, ma diverse.
“Quando lasciai la Vis Persiceto, arrivai alle giovanili della Virtus, dove sono cresciuto. Ho debuttato in Serie A a sedici anni, con la V nera sul petto. Sono cose che non si dimenticano. Poi ci furono i problemi della società e finii alla Fortitudo, a cui sarò sempre riconoscente perché ne sono uscito da giocatore vero. Ma questo ritorno, in fondo, chiude un cerchio e oggi mi sembra il finale giusto per la mia vita di giocatore. Finale prolungato, spero, perché sento di avere ancora tanto da dare alla disciplina che amo”.
DOPO LA TEMPESTA
Che l’inizio sia stato travolgente è indubbio. E non parliamo di prime apparizioni in campo. Prima ancora di debuttare per la seconda volta nella vita con la maglia bianconera (e col numero 3 che aveva sulle spalle conquistando l’anello Nba con gli Spurs nel 2014), la presenza di Marco Belinelli (“la firma più importante degli ultimi 40 anni”, parola di coach Djordjevic nel giorno della presentazione) ha provocato scintille e scaldato gli animi in società. Dopo la sconfitta casalinga con Sassari, nella quale Beli ha fatto presenza soltanto a bordocampo a causa di un lieve risentimento muscolare, è finita con l’esonero lampo proprio del coach serbo e del suo staff, accompagnati alla porta un lunedì pomeriggio e fatti rientrare in organico il giorno dopo. Ventiquattr’ore di assestamento, una decisione clamorosa e un reintegro altrettanto sorprendente, che l’Ad bianconero Luca Baraldi ha spiegato così: “Nelle famiglie ci possono essere problemi e servono confronti, l’importante è avere l’umiltà e l’intelligenza di ammettere di essersi sbagliati. Questa esperienza sarà un passaggio di forte crescita, non dimentichiamoci dov’era la società solamente tre anni fa”.
Vero, com’è vero che Marco Belinelli è stato semplicemente spettatore sia della partita che di questo inatteso dopopartita. Ma adesso tocca a lui, e come in ogni avventura si riparte da zero. Senza dimenticare tutta l’argenteria che luccica in bella vista, e che un giorno andrà lucidata con orgoglio. Ma Marco, si sa, è uno che non ha perso la voglia di arricchire la collezione.