FRANCO COLOMBA, cuore rossoblù

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Del Bologna è stato talento emergente, giocatore, capitano e infine allenatore. Oggi festeggia settant’anni pieni di ricordi: dai campi di Santa Teresa e Bitone al debutto in prima squadra con Pecci, fino al “tradimento” di Porcedda

di Marco Tarozzi

I suoi primi settant’anni sono tutti meravigliosamente bolognesi. Di Grosseto, Franco Colomba conserva il nome alla voce “luogo di nascita” e qualche sbiadito ricordo d’infanzia. Papà, carabiniere di professione, era in Toscana quando lui venne al mondo, ma cinque anni dopo si era già trasferito alla caserma di via Oretti, quartiere Mazzini. E quello diventò subito il suo mondo, tra le elementari Viscardi e le medie Farini, con la via Emilia da attraversare per andare a tirare i primi calci al pallone alla parrocchia di Santa Teresa.

Nato a Grosseto il 6 febbraio 1955. Cresciuto nelle giovanili del Bologna, ha debuttato nel centrocampo rossoblù nella stagione 1973-74, a Torino contro la Juve il 3 marzo 1974. Dopo due stagioni in B (Modena e Samb), è tornato “a casa”, giocando ancora dal ’77 all’83 in rossoblù: in totale 198 presenze (134 in Serie A) e 4 reti. All’Avellino dall’83 all’88, ha poi chiuso la carriera nel Modena. Nella sua carriera da tecnico spicca il triennio 1999-2002 alla Reggina, in cui valorizzò giovani come Pirlo, Baronio, Possanzini, Kallon. Ha allenato anche Modena, Olbia, Novara, Salernitana, Vicenza, Napoli, Verona, Ascoli (nel 2008-09 una salvezza che gli è valsa il premio “Scopigno” come miglior tecnico di B), Parma, Padova, Livorno. E’ arrivato sulla panchina del Bologna nel 2009-10 sostituendo Papadopulo, e salvando la squadra. Ha avuto una interessante esperienza nel calcio indiano alla guida del Pune City.

«La passione è nata a due passi dal Pontevecchio. Ci passavo interi pomeriggi, e lì mi notò Aldo Ceré, dirigente dei Rangers che giocavano al campo del Bitone, proprio dove oggi c’è un giardino dedicato ai partigiani. Quella fu la mia prima squadra. Ma intanto papà mi aveva trasmesso la passione per il Bologna, portandomi al Comunale quando avevo dieci anni. Era il 1965, sulla maglia i giocatori avevano lo scudetto conquistato l’anno prima. Ricordo ancora la prima partita da spettatore: Bologna-Milan 4-1, vista dalla curva San Luca perché allora tra le tifoserie non c’era divisione. Fu amore a prima vista».

Pochi anni dopo, fu ancora quel babbo dal cuore rossoblù a portare il suo ragazzo alla vecchia sede di via Testoni.
«Pagò 2500 lire per iscrivermi, e pochi giorni dopo feci il provino sotto lo sguardo vigile di Faele Sansone e Walter Bicocchi, che coordinavano il settore giovanile. Fu Bicocchi a prendere papà da parte consigliandogli di farmi continuare, e lui ne fu orgoglioso, ma mi fece comunque promettere che avrei pensato prima allo studio. Lo accontentai: tre anni in uno al Leopardi, esame statale da geometra al Pacinotti proprio poco tempo dopo aver debuttato in Mitropa Cup con la prima squadra, a Tatabanya, in Ungheria».

Se lo ricorda ancora bene il debutto in Serie A?
«Come fosse ieri. Era il 3 marzo 1974, si giocava a Torino in casa della Juventus. Finì 1-1, segnò Cuccureddu su rigore e pareggiò Savoldi a pochi minuti dalla fine. Quel giorno debuttammo in due: io ed Eraldo Pecci. Eravamo cresciuti insieme nelle giovanili, quella coincidenza ci legò ancora di più. Infatti siamo amici da sempre»

Un altro amico le servì un assist al bacio per il primo gol in Serie A.
«Successe non molto tempo dopo, il 21 aprile a Foggia. Passaggio perfetto di Giacomino Bulgarelli. Fino a quel momento, e anche per molto tempo dopo, il mio mito. Poi, nel tempo, è stata una fortuna poterlo conoscere come uomo. Un fratello maggiore, per me. Quel gol fu speciale, perché pareggiai dopo che per il Foggia aveva segnato Pavone, e figurarsi i titoli dei giornali del giorno dopo. Soprattutto quello di Stadio: “Nella voliera di Foggia, Colomba rimbecca Pavone”. Indimenticabile».

Molti anni dopo le è capitata una coincidenza incredibile, al Zaccheria.
“Dopo il Bologna, il Foggia in Lega Pro è stato la prima squadra della carriera di mio figlio Davide. Una domenica di aprile del 2010 segnò il suo primo gol in un campionato professionistico, contro il Potenza. Lo fece nella stessa porta in cui avevo segnato io trentasei anni prima, e sempre di sinistro. Una fotocopia”.

Da giocatore, qual è stato il suo Bologna più bello?
«Quello della rincorsa dopo il -5 di penalizzazione. La stagione 1980-81, con Gigi Radice al timone. Fu una cavalcata fantastica, eravamo un grande gruppo. Personalmente iniziai quell’annata da giocatore normale e alla fine avevo giocato trenta partite e mi ero guadagnato una reputazione a livello nazionale. In quei giorni ho capito una cosa importante: quelli che dicono che gli allenatori contano il giusto, sbagliano. Gigi contava, eccome».

Dopo gli anni delle giovanili, otto stagioni in prima squadra, vissute in due diversi periodi. Le ultime tre, per quanto difficili, con la fascia di capitano al braccio. In tutto 198 presenze e otto reti, una bella firma sulla storia del club.
«Era il mio sogno, giocare nella squadra di cui mi ero innamorato da bambino. La squadra della mia città. Sono stato fortunato, certi ricordi non si cancelleranno mai».

Poi c’è quell’appendice da allenatore, arrivata quando forse non ci sperava più.
«C’ero andato vicino nell’estate del 2000, quando mi contattò Gazzoni dopo la mia prima stagione a Reggio Calabria. Avevo un contratto triennale e un progetto da sviluppare, non se ne fece nulla. Nel giugno 2007 incontrai Cazzola, le possibilità sembravano concrete ma poi arrivò Arrigoni. Mi ero messo il cuore in pace, ero contento di aver guidato il Bologna almeno la sera della festa del centenario, insieme a Renzo Ulivieri. Invece poco dopo Papadopulo fu esonerato e mi arrivò la telefonata».

Stagione 2009-10, squadra in una situazione delicata e obiettivo raggiunto con una salvezza convincente. Sembrava l’inizio di una nuova storia, invece quell’estate Menarini lasciò il Bologna nelle mani di Porcedda.
«E tutto si chiuse con il delitto perfetto. Vivi per allenare la squadra della tua città, ti capita l’occasione e fai bene, pensi di ripartire nella stagione successiva con un progetto finalmente tuo e improvvisamente sei fuori, alla vigilia dell’inizio del torneo. Una pugnalata alle spalle che mi ha lasciato una ferita che non si rimarginerà mai».

Non tutti ragionano come lei. La correttezza non sempre paga…
«Ci sono allenatori con nomi altisonanti, altri che cercano semplicemente di fare al meglio il proprio lavoro. Gente normale, che probabilmente non solletica la fantasia di certi dirigenti. Credo di far parte di quest’ultima specie, ma mi consola aver sempre seguito la mia strada e non avere conti aperti con la coscienza».

Non ha perso i contatti col suo mondo: che ne pensa del Bologna di oggi?
«Sta entrando di diritto nel club delle squadre che valgono l’Europa. Lo aspettavamo da tempo, un Bologna così, c’è voluto tempo ma ora ci si può divertire. Italiano ha trovato l’equilibrio mantenendo quello che c’era di buono ed inserendo tratti evidenti della sua filosofia, come le verticalizzazioni. Mi piace, è un entusiasta, vive il calcio in maniera genuina, ha un feeling carnale con la squadra. Ha conquistato i tifosi, ma anche e soprattutto i giocatori: se loro hanno fiducia in chi li guida, le cose funzionano».

E Colomba, nel frattempo?
«Faccio il nonno. Di Nina, erede di mio figlio Davide, che ha già cinque anni, e di Lea, che ha quattordici mesi. Lei vive a Milano con mia figlia Silvia e Lorenzo, ogni tanto bisogna organizzarsi per qualche trasferta. Ma è un impegno meraviglioso».

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