Il giovane poeta, non ancora famoso, sotto le Due Torri riuscì a mettersi seriamente nei guai al punto da finire sotto processo accusato di un reato che oggi chiameremmo diffamazione e così dovette lasciare la città
di Serena Bersani
(pubblicato sul numero uscito nell’estate 2019)
Nella Bologna universitaria del 1564 si aggirava un giovane studente che avrebbe poi scritto un poema immortale ma che all’epoca, come gli universitari di ogni tempo, non disdegnava affatto la vita bohemienne e scapestrata tra cene con i compagni d’appartamento, feste, scherzi ai colleghi e intemerate varie. Torquato Tasso – detto il Tassino perché in quegli anni quello famoso era ancora il padre, il poeta Bernardo Tasso, destinato a cadere poi nel dimenticatoio – non facendosi mancare nulla, com’è tipico dei giovani anche di straordinario talento, sotto le Due Torri riuscì a mettersi seriamente nei guai al punto da finire sotto processo accusato di un reato che oggi chiameremmo diffamazione. È probabile che l’azione giudiziaria contro il giovane nascesse da odi personali e vendette politiche perché le ragioni di tanto accanimento appaiono piuttosto pretestuose. Fatto sta che, a causa di questo processo, per altro finito in una bolla di sapone, gli venne tolta la borsa di studio che gli permetteva di studiare all’Università di Bologna e fu costretto a cambiar aria. Aveva solo vent’anni ma, a quanto risulta, proprio qui aveva ideato la “Gerusalemme Liberata” e ne aveva composto già 116 stanze. Chissà come sarebbe andata se non fosse stato vittima di un tale accanimento giudiziario. Forse oggi Bologna potrebbe vantarsi di aver dato i natali, tra gli altri, al capolavoro di Tasso. Forse la vita stessa del poeta avrebbe preso una piega diversa, non sarebbe passata per i manicomi e i tribunali dell’Inquisizione.
Ma la storia non è fatta di se, e quindi alla storia ci dobbiamo attenere. Questa ci racconta che già a diciott’anni lo studente Torquato era in città per frequentare i corsi di giurisprudenza (che non amava e a cui preferiva la filosofia, ma in qualche modo doveva accontentare anche il padre). La sua presenza è testimoniata da una targa che si può leggere ancora oggi nell’atrio del civico 10 dell’attuale via Cesare Battisti, già via Imperiale, dove Tasso ebbe nei due anni di permanenza in città la sua abitazione principale, pur non disdegnando abitare per qualche periodo in casa di amici e compagni di studio. Vi si legge, infatti: “Torquato Tasso studente dell’Archiginnasio bolognese dal novembre 1562 al febbraio 1564 fu in questa casa ospite degli Almerici di Pesaro”. Insomma, uno dei tanti “fuorisede” diremmo oggi.
T
orquato era arrivato a Bologna dall’Università di Padova, dove era già noto per la precoce vena poetica e come autore del suo primo poema, “Rinaldo”. In città lo avevano portato i buoni uffici del vice legato pontificio Pietro Donato Cesi, vescovo di Narni, che in quegli anni governava Bologna facendo le veci di Carlo Borromeo, e l’esplicita richiesta di alcuni dei più insigni professori dello Studium, come lo storiografo Carlo Sigonio (che rimase un suo modello per gli studi di eloquenza) e il giurista Giovanni Angelo Papio, che con la presenza del giovane talento volevano dare lustro all’Ateneo bolognese e al proprio insegnamento.
Tasso, genio precoce, non disdegnava però passare le nottate facendo baldoria con gli altri “fuorisede”. Gli capitava spesso di fermarsi a dormire dopo una cena in casa del vicentino Giovan Battista Seghezzi, che aveva preso una casa in affitto in via San Petronio Vecchio con altri suoi concittadini. Oppure veniva ospitato nel lussuoso palazzo dei fratelli genovesi Francesco e Daniele Spinola, nell’attuale via Barberia. Fu probabilmente durante queste serate allegre che divennero pubbliche e poi passarono di bocca in bocca nel mondo universitario cittadino alcune cosiddette pasquinate, cioè strofe di versi scherzosi e irridenti con cui si mettevano alla berlina compagni di studi, professori e notabili cittadini sottolineandone i vezzi e i difetti. L’azione giudiziaria, rimasta agli atti del Tribunale Criminale del Torrone, fu probabilmente motivata da ragioni diverse dalla presunta diffamazione. Oltre tutto Tasso fu individuato come autore di quei versi, che circolavano anonimi per Bologna con la viralità di certi post odierni sui social network, proprio per le sue riconosciute capacità poetiche ma senza che vi fossero prove evidenti. Tra l’altro, a dimostrazione che non c’è mai nulla di nuovo sotto il sole e che la storia si ripete, anche nel processo a Tasso c’erano i segni di un evidente conflitto d’interessi. L’auditore del Torrone davanti al quale Torquato dovette comparire era infatti tale Marco Antonio Arese di Milano, guarda caso zio di Giovanni Battista Arese, uno degli studenti vittima privilegiata di quelle rime irriverenti circolanti nel mondo universitario. Tra le carte dell’accusa, il fatto che il poeta si fosse dilettato nei ritrovi conviviali a recitare, tra l’ilarità generale, quei versi infamanti o semplicemente scherzosi dimostrando di conoscerli a memoria. Questa sarebbe stata la prova che l’autore era proprio lui. Al processo sfilarono numerosi studenti chiamati a testimoniare. Il primo, il 12 gennaio 1564, fu uno dei compagni vicentini residenti nella casa di via San Petronio Vecchio, Vincenzo Arnaldi, il quale disse che era ben nota l’abilità di Tasso nel comporre versi, tanto che aveva già pubblicato un poema, e che lo aveva sentito recitare alcune di quelle terzine diffamatorie, di cui aveva presente benissimo il senso anche se non era in grado di riferirle a memoria. Per esempio, di tale Cesare Speziano si diceva che era brutto in volto e sporco, di tal Filippo Cicala che era figlio d’un corsaro e di una schiava, di un certo Pomponio Cusano che consumava più olio che vino nel profumarsi.
Un altro studente di Vicenza, Antonio Mosti, testimoniò di ricordare una terzina che lo riguardava personalmente: «I vitii di costui così apuntino / Dir non saprei perch’è novizzo ancora / Ma basta sol dir ch’è Vicentino». Un altro studente veniva sbeffeggiato così: «Studia la sfera et studia la poetica / Et non intende i termini, hor guardate / Se egli vaneggia forte, et se farnetica». Costui aggiunse che nei salotti si diceva che l’autore fosse proprio il Tasso, perché non era verosimile potesse imparare a memoria centinaia di versi, benché fosse noto per avere un’ottima capacità di ricordare. Il 14 gennaio venne interrogato il bergamasco Bonaventura Maffetti, il quale si mostrò reticente, costellando le risposte di «non so», «non credo», «non ricordo». I successivi testimoni aggravarono la posizione del Tasso o perché sostennero che la vox populi voleva proprio lui come l’autore dell’intemerata raccolta di versi o perché, come il piacentino Valerio Valeri, raccontarono di aver chiesto direttamente a Torquato se fosse lui l’autore, come si diceva in giro, e che questi avesse negato con fermezza, assecondando però subito dopo la richiesta di recitare i versi dedicati al vanitoso studente cremonese Orazio Trecchi: «Bell’esser crede, e acceso è di sé stesso / E crede aver in ciò molti rivali / Ma n’ha ben pochi inver, e fra quei tali / Niun ve n’è che non sia amato espresso».
Alla fine Torquato ne esce senza alcuna imputazione e il processo finisce in nulla, probabilmente grazie all’intercessione del suo protettore, il cardinale Cesi, a cui dal successivo esilio di Castelvetro, nel Modenese, scrisse una lunga lettera assolutoria in cui spiegava di essere solito scrivere versi anche scherzosi, ma come facevano tanti studenti a Bologna, e che comunque quelli che gli venivano attribuiti non erano affatto nel suo stile. Che si fosse trattato di una vendetta o di una ripicca per invidia delle abilità ancora in bozze del futuro grande poeta, il risultato è che a Torquato Tasso vennero tagliati i viveri, tolta la borsa di studio e fu cacciato dall’Università di Bologna. Sarà altrove che il poeta completerà la sua straordinaria opera. Una querela temeraria, dettata forse da cattiverie tra ragazzi, portò via per sempre da Bologna un genio della letteratura.