La “ricostruzione”, il tocco magico di Bernardini, l’accusa di doping, la morte di Dall’Ara. Alla fine, il trionfo sul prato dell’Olimpico. Il Bologna vince il suo settimo (in realtà ottavo) scudetto e conquista l’accesso alla Coppa dei Campioni
Di Marco Tarozzi
Era stata una ricostruzione, quella di Dall’Ara. Partita nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando il presidente rossoblù, già vincitore di quattro scudetti negli anni d’oro, si era messo in testa di riportare ai vertici il Bologna proprio mentre subiva le più dure contestazioni dalla piazza, arrivata a sperare che il petroliere ravennate Attilio Monti gli subentrasse al timone. Strada facendo, il numero uno aveva ritrovato l’entusiasmo di un tempo, e soprattutto la velocità d’esecuzione che lo faceva arrivare per primo a chiudere operazioni di mercato decisive. Aveva puntato sui giovani, non potendo arginare diversamente lo strapotere delle società milanesi: era ancora un imprenditore solido, ma contro il petroliere Moratti o la famiglia Agnelli bisognava giocare d’astuzia.
RICOSTRUZIONE. Così nel tempo erano arrivati Pascutti, Pavinato, Furlanis, Tumburus, tutti talenti in sboccio che sul momento non avevano soddisfatto le attese dei tifosi, ma erano andati via via maturando. E poi il Bologna si era trovato in casa una fortuna: quel Giacomo Bulgarelli, un ragazzo di Portonovo di Medicina esile ma nato per il calcio, come subito aveva capito Istvan Mike vedendolo giocare e consigliandolo a Gyula Lelovics, allora responsabile del vivaio. Infine, la scelta più azzeccata: mettere le sorti della squadra nelle mani di Fulvio Bernardini, il tecnico che già aveva saputo tener testa alle “grandi” nella stagione 1955-56, vincendo lo scudetto con la Fiorentina.
MANICO. Bernardini arriva nell’estate del 1961 e spiega subito che per arrivare al tricolore serve un progetto triennale. Non si prendono, il Dottor Pedata e il Commendator Paradiso, hanno caratteri troppo diversi. Però si rispettano, al di là di qualche frecciata scambiata a mezzo stampa. Il presidente mantiene pazienza e impegni, anche perché il Bologna inizia a mostrare un gioco brillante anche se non sempre redditizio, e con altri due colpi da maestro consegna al suo tecnico anche gli stranieri giusti per tentare la scalata decisiva: Harald Nielsen nel 1961, Helmut Haller un anno dopo.
MOSAICO. Serve ancora qualcosa, a questo Bologna-cicala che generosamente si produce in attacco, ma traballa pericolosamente dietro. Esemplificativo il quarto posto della stagione ’62-63, con 58 reti fatte, due più dei campioni dell’Inter, e 39 subite, 20 più dei nerazzurri: il Bologna bello da vedere, che gioca come si fa “solo in Paradiso”, ha bisogno di un ennesimo ritocco. A chiudere la saracinesca rossoblù nell’estate del ’63 arriva dunque, dal Mantova, William Negri, detto “Carburo”. Una delle mosse decisive verso il settimo sigillo. Insieme alla decisione di mettere Romanino Fogli più aggrappato alla mezza punta avversaria. E’ la quadratura del cerchio e nella stagione 1963-64 il Bologna parte forte, già il 9 febbraio è in testa alla classifica. Il primo marzo, battendo il Milan a San Siro con reti di Nielsen e Pascutti, viaggia con due lunghezze sull’Inter e tre sui rossoneri. Sembra un volo inarrestabile. Invece tre giorni dopo scoppia il caso destinato a dividere tifoserie e addetti ai lavori tra innocentisti e colpevolisti, a rompere di colpo amicizie consolidate.
L’ACCUSA. Il 4 marzo la Federazione emette un comunicato in cui si parla di analisi positive “all’esame per le sostanze anfetamine-simili” per cinque giocatori rossoblù. I cinque, secondo l’accusa, sono Fogli, Pavinato, Pascutti, Perani e Tumburus. Il controllo si riferisce alla partita Bologna-Torino del 2 febbraio, vinta 4-1 incassando anche i complimenti di Rocco, allenatore granata. Poco più di due settimane più tardi, il 20 marzo, la giustizia sportiva emette il verdetto: sconfitta a tavolino col Torino, un punto di penalizzazione, 18 mesi di squalifica a Bernardini e assolti i giocatori perché, secondo la commissione giudicante, la somministrazione delle sostanze illecite era avvenuta a loro insaputa. La città scende in piazza, il sindaco Dozza si schiera accanto a società e squadra. La stampa bolognese fa quadrato, con le migliori firme in circolazione (e quelle che lo diventeranno) impegnate in una caparbia ricerca della verità. Ma la mossa più importante la fanno tre avvocati bolognesi. Si chiamano Gabellini, Cagli e Magri. Chiedono l’intervento della magistratura ordinaria, che sequestra le provette incriminate per le controanalisi. È la svolta.
SOLLIEVO. Intanto, la stagione va avanti: Bernardini guida Cervellati dalla tribuna con la radiolina a transistor delle polemiche, all’Olimpico contro la Roma; il Bologna perde in casa contro l’Inter in quella che i giornali milanesi annunciano come una “Pasqua di sangue”, e che invece una volta di più mostra il grado di civiltà della tifoseria bolognese. Poi, un po’ alla volta, la squadra riprende a viaggiare spedita, dando la sensazione di intravvedere una luce in fondo al tunnel. E quella luce, in effetti, esiste davvero. Le controanalisi ordinate dalla magistratura dimostrano senza ombra di dubbio che nelle provette sigillate non esisteva traccia di anfetamina, né di qualsiasi altra droga. Quella trovata (in dosi buone per abbattere un cavallo da corsa) era soltanto nelle provette del primo controllo, senza chiusura ermetica e alla portata di chiunque. Diventa chiara a tutti una verità inquietante: i campioni controllati in un primo momento avevano subito una manomissione, certamente dolosa. Il 16 maggio 1964 la Caf, alla quale il Bologna si era appellato, assolve tutti e il Bologna, innocente come i suoi cinque incriminati, riottiene i suoi tre punti e si ritrova in cima alla classifica, a pari merito con l’Inter. Mancano due giornate alla fine e la volata finale non cambia la situazione: il 31 maggio 1964 la cavalcata finisce in parità a quota 54 punti. Dopo una serie di proposte, alcune decisamente discutibili, si sceglie la strada dello spareggio: la sfida che deciderà il campionato viene fissata per domenica 7 giugno, all’Olimpico di Roma.
TRAGEDIA. Sono giorni di tensione. Ma all’improvviso l’attesa viene scossa da una tragedia. Mercoledì 3 giugno, a Milano, nella sede della Lega Calcio, Renato Dall’Ara e Angelo Moratti, presidenti di Bologna e Inter, sono impegnati in una discussione sui premi-partita alla presenza del presidente della stessa Lega, Giorgio Perlasca. Dall’Ara ha il cuore malandato e lo sa, è salito a Milano accompagnato dalla moglie e dal dottore di fiducia, non può affrontare un viaggio stancante senza prendere precauzioni. Ma lo fa per il bene del Bologna. E con la passione di sempre si fa prendere dalla discussione, si accalora, si accende. Finché, di colpo, si accascia tra le braccia di Moratti. Infarto fulminante.
La notizia arriva a Bologna in un attimo e la sconvolge. La società chiede un rinvio, che viene respinto. Si deve giocare il 7, non c’è tempo per elaborare il lutto. Destino assurdo: Dall’Ara non potrà vedere il capolavoro finito, dopo tanti anni di sofferenza, di critiche, di lavoro per riportare il Bologna ai vertici. Ma ora la squadra ha un motivo in più per ribaltare una sorte fin qui spietata, e portarsi a casa il settimo scudetto.
TRIONFO. «Quel giorno non ci avrebbe battuti nessuno», dirà poi per anni Romano Fogli, che quel giorno all’Olimpico gioca la partita perfetta: gol dell’1-0 su punizione deviata da Facchetti nella propria rete, assist vincente per il 2-0 di Nielsen. I tifosi sugli spalti a Roma non dimenticheranno mai più quel pomeriggio, mentre su Bologna aleggia un irreale silenzio fino al gol di Romanino. Alle 16.45 per le strade della città esplode la festa: nella gioia il popolo rossoblù ripensa agli anni duri e a quel presidente che non ha mai mollato, nemmeno negli anni della contestazione: che voleva riportare il Bologna in alto e c’è riuscito, pagando con la vita una passione infinita.