Nelle cappelle e nelle chiese della città le testimonianze dell’arte del XIV e XV secolo. Al Museo Civico Medievale di Bologna fino a marzo la mostra sul prolifico pittore
Di Gian Luigi Zucchini (foto di Guido Barbi)
L’interessante mostra sul pittore trecentesco Lippo di Dalmasio, allestita presso il museo Civico Medievale di Bologna (fino al marzo scorso, ci consente una straordinaria pausa nell’incalzare del quotidiano, per fare quattro passi lungo ciò che è rimasto della Bologna tra Tre e Quattrocento: frammenti, più che altro, tra scorci di portici, umidi vicoli solitari e resti di torri mozzate. Però molto ancora si può vedere in chiese e cappelle dell’antico centro storico, su muri affrescati o su fondi oro opacizzati dal tempo: Madonne, quasi tutte con Bambino, che allattano, esortano, pregano, o scherzano col piccino che hanno tra le braccia, curiose, pie, eleganti come gentildonne ma più spesso raccolte e discrete nel loro ruolo di madri e di spose.
Le possiamo vedere ancora, oltre che nella mostra citata, in tavolette o polittici, insieme a santi e beati, tra angeli che suonano, cantano o anche piangono intorno a martoriati crocifissi insieme a pie donne disperate; il tutto però connotato da un comportamento di concretezza quotidiana, espressione che richiama uno status, un modo di essere, una specie di espressionismo ante litteram, caratteristica di una cultura e di una storia, in cui, come sosteneva Arcangeli, si possono leggere i ‘tramandi’: tradizioni, usanze, costumi, pensieri e comportamenti che hanno costruito nei secoli l’identità di una precisa area culturale e più in dettaglio di una città, appunto – nel nostro caso – Bologna nel Trecento e nel primo Quattrocento.
Non ancora rinascimentale, come invece già era Firenze, ma interessata, quasi curiosa – si direbbe – di affrontare nuovi stili, temendo però di osare troppo: un gotico non austero, movimentato da fregi e decorazioni, detto poi ‘gotico fiorito‘, come nella bellissima ancona che fa da quinta d’altare di Jacobello e Pierpaolo delle Masegne nella basilica di San Francesco; oppure un’eco di dolcezza toscana come in certi dipinti dello stesso Lippo di Dalmasio, artista prolifico e ‘madonnaro‘, come poteva essere definito dal popolo dei mercati e delle osterie in quell’epoca in cui si dipingevano dappertutto soltanto Santi, Madonne e Crocifissi.
E così appunto faceva anche lo zio dello stesso Lippo, cioè Simone di Filippo, detto ‘dei Crocifissi’, specializzato, verrebbe da dire, in dipinti di Cristi in croce, pure con santi piuttosto mesti e Maddalene dolenti. Ma non soltanto questo, perché l’artista si fece segnalare anche come colui che – nel 1380 – dipinse con vivaci colori un antico presepe in legno con Re Magi del 1290, che ancor oggi si può vedere nella chiesa del Martyrium, una delle sette chiese del complesso di Santo Stefano: gruppo robusto, austero, senza compunti pastori con formaggi o contadinotte prone con uova, ma solenne, monumentale, anche per la mole dei personaggi, costruiti a tutto tondo a grandezza naturale, che si stagliano nel ridotto vano della cappella e colpiscono per il vivace cromatismo ravvivato non molti anni fa da un magistrale restauro di Ottorino Nonfarmale.
I quattro passi sono ormai esauriti, ma se si volessero fare pochi passi in più , sempre in compagnia di Lippo, si verrebbe a conoscenza di qualche altro artista dell’epoca, che in quel periodo lasciò a Bologna opere degne non soltanto di uno sguardo ammirato, ma anche di uno perlustrazione più approfondita, come la stupenda pala della cappella Bolognini, 4/a da sinistra entrando in San Petronio. È una cappella che prende il nome dal ricco mercante di seta Bartolomeo Bolognini, di cui vediamo nel pavimento la lastra tombale. La Bologna mercantile viene così richiamata anche in una chiesa, e da opere d’arte, testimonianza di un benessere che derivava dal lavoro, in questo caso, dei setaioli, una delle molte attività, (cioè la produzione della seta), che hanno dato lustro e ricchezza alla città.
In questa cappella troviamo gli splendidi affreschi di Giovanni da Modena, un insieme di figure che, in diverse scene, raccontano su una parete il viaggio dei re Magi, e sull’altra, di fronte, il Giudizio Universale. L’ Inferno è di ispirazione dantesca e vi figurano, tra l’altro, due citazioni che a tutt’oggi suscitano la frivola curiosità di molti turisti. Si riferiscono a Maometto e al cognato Alì, che Dante colloca tra i seminatori di discordia, nella IX Bolgia dell’VIII cerchio dell’Inferno (e qui è utile ricordare come tali aspetti siano ancor oggi motivo di scontri durissimi tra sunniti – che si riconoscono come sostenitori e seguaci di Alì, cugino di Maometto e marito di sua figlia Fatima – e sciiti, che invece sostengono la legittimità della successione al profeta da parte dei primi tre califfi, da cui poi il califfato).
Infine, sempre in questa cappella, osservando in alto, sopra il finestrone, si può notare un dipinto relativo ad un fatto poco conosciuto dagli stessi bolognesi: l’elezione a Sommo Pontefice del cardinale Giovanni Cossa col nome di Giovanni XXIII. Il Cossa fu papa e al tempo stesso antipapa, poiché erano stati eletti altri due papi, l’uno e l’altro in antitesi (uno considerava l’altro un antipapa). Egli fu dunque il terzo papa, eletto nel conclave che si tenne a Bologna nel 1410.
Press’a poco in quell’anno Lippo muore e dunque, dopo la breve passeggiata, ci lascia, ma non scompare nel tempo: insieme agli artisti citati ed altri dell’epoca è presente nella ricca Pinacoteca bolognese, dove si possono trovare interessanti e significative tracce di lui e del suo lavoro.