Lizzano in Belvedere, Cornacchiaia, Montovolo, Panico, Brento, Grizzana Morandi, Roffeno e altri ancora: nonostante i tanti secoli trascorsi, nella montagna bolognese rimangono ancora molti esempi dell’architettura romanica, alcuni conservati nella loro completezza
Di Michelangelo Abatantuono
(Pubblicato sul numero uscito nell’inverno del 2011)
Nel corso dell’XI secolo la società europea gradatamente si risvegliò da un torpore durato alcuni secoli, durante il quale anche l’arte e l’architettura erano cadute in oblio, causando una netta cesura con l’età romana, periodo in cui le espressioni artistiche avevano raggiunto livelli davvero ragguardevoli. La rinascita del Mille rimise in moto i popoli sul piano delle idee, dei commerci, della politica e anche dell’architettura, in special modo religiosa.
Per circa due secoli si ebbe un fervore costruttivo che disseminò in vasta parte dell’Europa, ed anche dell’Italia, centinaia di chiese costruite secondo lo stile definito “romanico”. Il termine vuole evidenziare la contemporanea nascita delle lingue romanze (tra le quali l’italiano), nate dalle ceneri della lingua latina che i romani avevano diffuso nella quasi totalità del mondo conosciuto. Fu uno stile severo, con murature regolari, pietre dalla forma squadrata, coperture a volta anche su ampi spazi, finestratura spesso caratterizzata da ridotte dimensioni e dall’accentuata strombatura.
Anche il nostro territorio appenninico fu interessato da questo fenomeno, certo con forme meno monumentali rispetto a quelle che ancora oggi si possono ammirare in Toscana, in Lombardia o in varie zone della Francia. Eppure anche nella montagna tosco-bolognese ogni villaggio ebbe la sua chiesa, costruita da maestranze specializzate provenienti dalla Lombardia o dalla vicina Toscana. Nonostante siano trascorsi secoli e molte di quelle chiese siano state distrutte, trasformate o nascoste da ampliamenti posteriori, rimangono ancora esempi relativamente numerosi di architetture romaniche, alcune conservate nella loro completezza. La maggior parte di esse si trova nella parte occidentale della provincia, nella valle del Reno e delle Limentre, mentre l’area orientale ne conserva un numero notevolmente inferiore.
Nell’organizzazione ecclesiastica medievale le pievi, o chiese battesimali, ebbero un ruolo di preminenza: si trattava di chiese sovraordinate rispetto a quelle circostanti, da cui le cappelle sparse sul territorio dipendevano per l’amministrazione dei sacramenti, per la fiscalità ecclesiastica e su di esse il pievano esercitava una forma di controllo simile a quello del vescovo sulla diocesi.
La pieve di Lizzano in Belvedere è ricordata fin dall’anno 801 in un documento di Carlo Magno, che passò non lontano, di ritorno da Roma dove era stato incoronato imperatore. Dipendeva dall’abbazia modenese di Nonantola, ma non fu tra le pievi più antiche: ne è indice il piccolo territorio che ancora nel XIV le era sottoposto con solo 5 o 6 cappelle.
Della pieve romanica si conservano pochissimi resti, consistenti in frammenti decorativi di pietra, ma notevole è l’attigua torre rotonda (in realtà ellittica) di San Mamante, una torre circolare (forse l’antico battistero) che fino agli anni Sessanta del Novecento aveva fatto da base per il campanile. Si tratta di una struttura pre-romanica costruita nel periodo compreso tra VIII e X secolo.
Nella media valle del Reno si trova invece la pieve di San Lorenzo di Panico, una delle meglio conservate della montagna bolognese, anche se le forme così evidentemente romaniche sono frutto di restauri e ripristini otto-novecenteschi. La chiesa, costruita verosimilmente alla metà del XII secolo, venne a trovarsi al centro del dominio dei conti di Panico, una delle schiatte nobiliari più potenti dell’Appennino tosco-emiliano. Ebbe sottoposte più di trenta cappelle e si trovava a pochissima distanza dal castello dei conti. È un esempio quasi perfetto di chiesa lombarda, con tutte le caratteristiche in evidenza: pianta a basilica, finestre a lucernari, pietre omogenee, significative decorazioni. L’abside semicircolare, costruito in opus quadratum presenta sottili colonne che sorreggono un fregio con piccole arcate pensili; ha tre monofore riccamente decorate. Le forme romaniche vennero corrotte da aggiunte posteriori e solo i restauri degli anni 1892-97 e 1913-14 ripristinarono la situazione originale anche con aggiunte discutibili, quali il rosone e la lunetta sovrastanti la porta occidentale e la balaustra del presbiterio. Tralasciando da queste considerazioni, la visita alla chiesa è sicuramente emozionante per la particolare atmosfera che la struttura riesce a creare.
Non distante da Vergato si trova la pieve di San Pietro di Roffeno, almeno in parte ascrivibile al XII secolo. Si trovava su un’importante area di strada transappenninica, che metteva in comunicazione Nonantola e la pianura padana con Pistoia, Lucca e la Toscana. È un esempio ben conservato di chiesa romanica rurale, con abside semicircolare con fregio ad archetti e tre monofore, delle quali quella centrale è riccamente scolpita. Desta curiosità la parete nord, che non è parallela all’asse dell’edificio. Di notevole interesse è un catino di pietra conservato al suo interno, ornato con una greca e una serie di delfini. Alcuni lo datano all’epoca longobarda, mentre altri propendono per l’XI-XII secolo. Attualmente svolge funzioni di fonte battesimale, ma in antico doveva piuttosto essere un catino per le offerte, come il noto catino di Pilato conservato nel complesso bolognese di Santo Stefano.
Si passa invece in Toscana con la pieve di San Giovanni Decollato di Cornacchiaia,
nel comune di Firenzuola, a pochi chilometri dal passo della Futa. Tipici del romanico toscano sono il pannello triangolare decorato a scacchiera con pietre policrome sulla parete esterna di destra e l’ornamento del portale.
La chiesa, alla cui facciata è addossato un portico architravato, è divisa all’interno in tre navate, la maggiore delle quali è più alta delle altre. Nella controfacciata sono scolpiti due capitelli raffiguranti delle aquile.
Sempre in Toscana, alle sorgenti del torrente Setta si trova la badia di Santa Maria di Montepiano, anch’essa uno splendido esempio di romanico appenninico, nel quale la pietra arenaria fa la parte del leone. Le origini della badia risalgono alla fine dell’XI secolo, verso il 1088, e la fondazione, voluta dall’eremita Pietro, venne promossa dai signori del luogo, i conti Cadolingi, che legarono la badia alla congregazione vallombrosana. L’attuale edificio conserva molte parti originali: la facciata e la maggior parte dell’unica navata (caratteristica delle chiese vallombrosane) sono dell’epoca, mentre la parte absidale e del transetto si devono a modifiche seicentesche. Di notevole interesse è la figura di orante a mani alzate e con decorazioni fito e zoomorfe scolpita nella lunetta del portale. Nell’altare maggiore si trova la copia di un bassorilievo di Girolamo da Como, uno dei maestri che edificarono l’edificio. Interessanti, infine, gli affreschi nelle pareti laterali interne, risalenti ai secoli XIII-XV.
Tornando in Emilia, un’importante esempio di architettura romanica è nel complesso santuariale di Montovolo, a cui questa rivista ha dedicato un articolo nello scorso numero. Di grande interesse è la cripta risalente ai secoli IX e X, che secondo alcuni studiosi sarebbe la parte absidale della precedente chiesa. Qui si segnalano le piccole absidi semicircolari con splendidi capitelli scolpiti con figure zoomorfe.
Non mancano in altre aree della montagna esempi di architettura romanica, forse meno eclatanti, ma uguamìlmente importanti sul piano della ricostruzione e della documentazione storica. La chiesa dell’ospitale di Sant’Ilario del Monte di Badi (Castel di Casio) conserva l’abside romanica semicircolare con unica monofora e cornicione scolpito. L’interno dell’abside presenta affreschi della metà del XVI secolo, che comportarono la chiusura della monofora.
Anche la chiesa di Santo Stefano di Vigo (Camugnano) conserva parti dell’originaria struttura romanica, in particolare l’abside rettangolare in pregevole opus quadratum. Poco più a nord l’oratorio di San Lorenzo di Tudiano (Grizzana Morandi) mantiene i muri romanici, benché coperti da un incongruo intonaco. L’abside quadrata è illuminata da una monofora e anche il campanile a vela sembra risalire all’epoca romanica. Spostandosi più a est, nella valle del Savena, l’unica reminiscenza architettonica altomedievale si ritrova nei resti della chiesa di San’Ansano di Brento, distrutta nel corso della seconda guerra mondiale. In mezzo alla vegetazione, che ha preso il sopravvento sui ruderi dell’antica chiesa, rimane parte dell’abside semicircolare, a pochi passi dal cimitero dove solo pochi anni or sono qualcuno ancora pietosamente recava qualche fiore sulla tomba dei parenti defunti.
In questa veloce carrellata sull’arte romanica dell’Appennino ho ricordato solamente le emergenze più rappresentative o meglio conservate, ma sul territorio si trovano altre testimonianze più ridotte o meno eclatanti; chi volesse approfondire l’argomento può consultare il volume Il romanico appenninico bolognese pistoiese pratese, edito alcuni anni or sono dal Gruppo di Studi Alta Valle del Reno di Porretta Terme.