La saggezza della cultura contadina nei proverbi di una volta
di Adriano Simoncini
Nelle nostre vallate, fino agli anni’50 del Novecento, chi poteva farlo allevava un proprio maiale. Le famiglie contadine almeno due, uno per sé e l’altro per il padrone del podere. Ma anche chi aveva un po’ di terra, un orto da seminarvi patate fagioli verdure comprava a fine inverno un lattonzolo, lo ingrassava fino a dicembre e per Natale aveva in tavola i tortellini col ripieno del lombo del maiale che aveva custodito. Perché il maiale – in dialetto, a seconda delle zone, maièl, porz, ninín, gonc’ – era relativamente agevole da allevare, divorava infatti di tutto: ghiande – i nostri monti coperti di querce ne offrivano in abbondanza – gli scarti dei cereali e, nella broda pr’ e gonc’, pr’e ninín, la crusca che il setaccio separava dalla farina, bucce di patate, torsi, frutta e verdure marcite, e ogni genere di avanzi alimentari. Tanto che la sua grassezza testimoniava implicitamente il benessere della famiglia che lo aveva nutrito, come confermava il detto chi sta a i avènz o póc o tent, chi sta agli avanzi o poco o tanto.
Comunque occorreva guardarsi dall’acquistare, per allevarlo, un maialino dal mugnaio, viziato dal vivere nell’abbondanza di cereali farine crusca del mulino, sconsigliabile al pari del cane di macellaio e della donna d’osteria:
chen de bchèr
porz ed mulinèr
don d’ustarìa
an in tulessi per la vèrgin Maria
cane di beccaio
porco di mulinaio
donne d’osteria
non ne prendete per la vergine Maria.
Lo si comprava dal mercantino di passaggio e costava denaro, e risorse alimentari occorrevano comunque per ingrassarlo: dalla sua uccisione si attendava quindi abbondanza di cibo per l’inverno, e la macellazione era sempre giorno di festa. Anche i vicini e gli amici erano interessati e, ancora vivo, a gara ne stimavano il peso. Ma merchent e porz is pésen dop mort, mercanti e porci si pesano dopo morti e le delusioni non erano infrequenti.
Sfèr e gonc’, e ninín, disfare, fare a pezzi il maiale era comunque un rito gioioso se pur crudele, almeno nella prima parte. Lo officiava – assecondato dall’arzdór, dal patriarca e dagli adulti della famiglia – il macellaio, uomo d’arte, addentro all’anatomia animale e abilissimo a usare coltelli d’ogni taglio e dimensione. Volutamente tralasciamo di descrivere la parte impietosa dell’evento, che prevedeva l’uccisione di una bestia allevata con cura affettuosa e veniamo invece alla sua trasformazione in alimento. Perché se il maiale, come detto, mangiava di tutto, lui medesimo veniva a sua volta mangiato per intero.
Il sangue che fuoriusciva fumante dalla ferita aperta nella gola si raccoglieva e friggeva, ottimo companatico per la polenta. Budella e vescica venivano accuratamente lavate per servire da contenitori. Dentro il paiolo sul fuoco si facevano bollire ossa, testa, cartilagini, mentre il macellaio tagliava e suddivideva muscoli, interiora, pelle in mucchi separati secondo opportuni criteri. Li salava, cospargeva di pepe, profumava d’aglio e di vino. Cominciava a insaccare e… avveniva il miracolo: un animale ritenuto esempio d’ogni vizio – per insultare crudamente qualcuno gli si diceva t’e un gonc’, un porz / sei un maiale, un porco… – si mutava in arca dell’abbondanza.
Prosciutti e spalle dalle zampe; coppa dalla testa insaccata nell’intestino crasso; cotechini con le cotenne, coda e cotiche sminuzzate dentro il retto; salami col filone della schiena, detto lombo; salsiccia buona dai vari muscoli triturati e imbudellati nel tenue; salsiccia matta con le carni al sangue e le coratelle; ciccioli, croccanti o pastosi, dal lardo bollito e pressato a dovere; strutto, il grasso fuso e raccolto nella vescica, e poi pancetta arrotolata e no, costole, fegato e relativa gustosissima rete (l’alloro, e mlór, s’aggiunge nella padella), lombo per i tortellini di Natale, ossa per i cani e, chissà, forse avremo dimenticato qualcosa.
Un animale così importante per la tavola ha ovviamente suggerito alla lingua espressioni e metafore in abbondanza, in particolare al nostro dialetto montanaro. Qualche esempio l’abbiamo già riportato, ma aggiungiamo almeno un altro detto: ai ninín an s’muda e buclèr, ai porci non si cambia il truogolo, il recipiente della loro broda. A significare che su una tavola imbandita d’ogni sorta di cibi non si cambiano i piatti a ogni pietanza, come solitamente usa, ma si lascia che i convitati s’abbuffino, appunto da maiali, entro una sola scodella. E buon appetito…