Beppe Lamberti, nato come giocatore alla Virtus, fu l’anima dell’operazione che nel 1966 portò la Fortitudo in Serie A rilevando i diritti della Sant’Agostino. Poi la guidò per dodici stagioni
di Marco Tarozzi
foto Archivio Luca e Lamberto Bertozzi
Facciamola semplice: se esiste il mito della Città dei Canestri, che resiste talvolta anche alle ingiurie del tempo, se la stessa Fortitudo ha lasciato l’impronta nella storia della pallacanestro italiana, lo si deve all’intraprendenza di Beppe Lamberti. Perché da lui partì l’idea, e c’era lui al tavolo del ristorante “i Franco” di via della Grada, mica troppo distante dal Palasport, il giorno in cui quell’Aquila biancoblù prese timidamente il volo, tra qualche affanno e un pieno di entusiasmo che avrebbe fatto superare anche il più alto dei muri.
IL GRANDE SOGNO. Era il 12 agosto 1966. In quel ristorante, accanto a Lamberti, c’erano Piero Parisini, Pietro Lucchini e Bruno Mezzadri. E con loro Gino Galletti, dirigente della Sant’Agostino. Perché tutto sarebbe partito da lì, dalla decisione maturata in seno a quest’ultima società di abbandonare il mondo della pallacanestro, e dal progetto folle che quei quattro ragazzi di neppure trent’anni si erano messi in testa. Servivano venti milioni, per rilevare i diritti della Sant’Agostino. Li trovarono, non sapendo bene in che modo avrebbero potuto restituirli. Ma l’accordo si fece, e quel giorno iniziò la storia della Fortitudo.
C’è un aneddoto divertente che gira intorno a quelle ore, e riguarda un altro pezzo di storia dello sport bolognese, questa volta quello raccontato. Usciti dal ristorante, Lamberti e Parisini si incamminarono verso via San Felice e poco più avanti, nel silenzio di una Bologna insonnolita, vuota e bollente, si imbatterono in Gianfranco Civolani. E il Civ, naturalmente, alzò le antenne. “Tutto bene? Ci sono novità?”. Ma l’operazione doveva restare segreta fin dopo Ferragosto, e la risposta fu scontata. “Tutto bene. Nessuna novità. Anzi, ci siamo trovati qui per andare al mare…”. Qualche giorno dopo, saputo dell’inganno, quello che sarebbe diventato il decano dei giornalisti sportivi bolognesi non la prese benissimo. Per qualche settimana, ogni volta che incontrava Lamberti e Parisini, e allora succedeva spesso perché la Città dei Canestri aveva confini limitatissimi, il Civ girava la testa dall’altra parte.
IL TIMONIERE. Per dodici lunghe stagioni, Beppe Lamberti è stato il volto della Fortitudo. Il timoniere, la guida, perché ancora il termine “coach” non si usava, in una pallacanestro dalle terminologie autarchiche e dallo spirito romantico. Era in Furla dal 1961, cioè cinque anni prima della famosa riunione al ristorante di via della Grada. Fu lui a portare l’Aquila dal nulla alla Serie A, lui a vivere ed alimentare l’epopea dei primi derby, lui a guidare da bordocampo il primo mito della storia biancoblù, il “Barone” Gary Schull.
Eppure, Beppe era nato professionalmente sull’altra sponda. In Virtus, coltivato da un altro grande precursore dei tempi, quel genio di Vittorio Tracuzzi. Nel giro della prima squadra già nel 1953, playmaker con 29 presenze collezionate dal ’54 al ’57, un’impronta piccola ma significativa su due scudetti. Poi, dopo una parentesi al Gira, la scelta di uscire dal parquet per insegnarla, la pallacanestro. E ancora una volta fu la Virtus a dargliene occasione, affidandogli le giovanili per un paio di stagioni. Fino a quando, appunto, Beppe non decise di mettersi le ali e provare a volare. Con la Fortitudo.
IN ANTICIPO SUI TEMPI. “Ho sempre avuto un pessimo carattere, anche in campo. Non stavo mai zitto, né con gli arbitri né con gli avversari. Ero un piccoletto tignoso, di quelli che non mollano mai. Decisamente antipatico. Però sono orgoglioso di due cose: ho insegnato a giocare a pallacanestro a un sacco di gente, e ho dato tanti giocatori alle varie nazionali”.
Così parlò Beppe Lamberti, raccontando di un basket, il suo, che era in anticipo sui tempi. Tutto difesa e contropiede, ritmo e aggressività, zone miste. Adesso sono cose normali, allora era avanguardia pura.
La Fortitudo di Lamberti assomigliava a lui. Una squadra che dava il centodieci per cento quando le cose si mettevano male, che rendeva al massimo in sfavore di pronostico. Il carattere che ha lo sviluppò in quegli anni, e dentro ci sono tanto Beppe e tanto Barone. Perfino Dan Peterson, che arrivò a Bologna proprio quando Lamberti salutava il mondo dell’Aquila, si rese conto di quello che aveva lasciato. “Giocava con una squadra spesso fatta da scarti di altri club, erano davvero i nani con il coltello tra i denti. Ai tempi avevano poco pubblico ma grande cuore, e questo genio in panchina e nello spogliatoio. Era l’anti-Virtus in persona, un piccolo gigante. Quando arrivai non c’erano né Beppe né il Barone, ma era rimasto il loro messaggio. Qualcosa che mi aiutò tanto a capire dove ero finito, e anche a capire il senso del Derby”.
ALLA SCOPERTA DI MEO. Lasciò la Fortitudo, casa sua, nel maggio 1973, dopo essere stato guida e ispirazione per tanti, da Ettore Zuccheri a Marco Calamai e Lino Bruni. Lo chiamò Giancarlo Sarti a Udine nel 1974 per salvare una nave che stava affondando, e lui fu esemplare nel portare a termine il compito, battendo allo spareggio-salvezza proprio la sua Fortitudo, messagli di fronte da un destino beffardo. “Fortuna che poi la ripescarono”, avrebbe commentato in seguito. Quindi, l’ultima avventura, sulla carta affascinante: la chiamata del Gira, nella stagione 1976-77, con il presidente Forni che si era messo in testa di costruire la Juventus dei canestri. Partendo dalla Serie A2, subito la promozione tra le grandi. “Fu un campionato strepitoso”, ricordava, “con una squadra divertentissima. Poi cercammo tutti di fare in fretta quello che avrebbe richiesto più tempo, e fu un errore”. Ma un merito se lo è sempre riconosciuto, Lamberti. “Meo Sacchetti era considerato un giocatore perso per la pallacanestro, era ingrassato e in Serie B faceva la riserva di Frediani. Nessuno aveva capito il suo potenziale, ma nel mio Gira rifiorì. Non ho mai allenato un giocatore così, sapeva fare tutto, in qualunque ruolo. E credo di avere avuto un merito: averlo convinto che poteva diventare il giocatore che poi è diventato”.
DALLA PALESTRA AI BOSCHI. Poi, con tutta la sua passione, Beppe Lamberti chiuse un capitolo importante della sua vita. Un vita troppo breve, nella quale ha amato svisceratamente il basket, ma non ha vissuto soltanto di basket. “Mi presi la licenza di caccia e scoprii un altro mondo, sulle colline intorno a Monzuno. Sorpresa, quel mondo non era fatto a spicchi. C’erano anche gli alberi, i prati, i rumori del bosco e le giornate di cielo terso”.
L’ambiente della pallacanestro lo lasciò vivere in quel nuovo ambiente che lo affascinava. Solo una fugace apparizione in biancoblù, da dirigente, all’inizio degli anni Novanta. Come spesso capita, è più facile dimenticarsi in fretta chi ha mostrato di essere in anticipo sui tempi, piuttosto che mettere in un angolo quelli che si limitano a fare il compito senza sbavature. Ma ogni tanto, voltandoci indietro, ci rendiamo conto di ciò che è stato Beppe Lamberti nel suo breve passaggio in questo ambiente. Non solo per la Fortitudo, ma per la pallacanestro italiana.
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BEPPE LAMBERTI è nato il 13 giugno 1937 a Pesaro, da genitori bolognesi. Iniziò a giocare nella Virtus, arrivando in prima squadra e mettendo la firma su due scudetti, prima di passare a Roma e per due stagioni al Gira. Infine, nel 1961, l’approdo alla Fortitudo, partendo dalla Serie B come allenatore-giocatore. Chiusa la carriera in campo, ha guidato l’Aquila per dodici stagioni, approdando nel 1968 alla finale di Coppa Italia, poi Udine nella prima stagione dopo il commiato, battendo proprio la Fortitudo agli spareggi-salvezza, quindi il Gira “griffato” Fernet Tonic per due stagioni, con una promozione in Serie A1 e una salvezza. Ci ha lasciati un mese prima di compiere sessantun anni, il 13 maggio 1998