Nel 1860 i sacerdoti di San Petronio, devoti a papa Pio IX, si rifiutarono di cantare il Te Deum per Re Vittorio Emanuele II in visita in città. La Prefettura fu costretta a reclutare sacerdoti dalla provincia promettendo soldi e prebende ma il risultato non fu quello sperato
di Gianluigi Pagani
Di Gianluigi Pagani
Bologna ha recentemente festeggiato la ricorrenza del maggio 1860, quando Vittorio Emanuele II ha visitato la città di Bologna. Vi è stata anche un’importante mostra al Museo civico del Risorgimento dal titolo “Arriva Vittorio Emanuele! Dai festeggiamenti del 1860 alle celebrazioni del 1888”, a cura di Mirtide Gaveli e Otello Sangiorgi.
La famiglia reale arrivò infatti a Bologna il 1 maggio 1860, in un clima di grande partecipazione popolare, e rimase fino al 4 maggio. Le cronache raccontano dell’ingresso trionfale, insieme al ministro Luigi Carlo Farini, accolti dal sindaco Luigi Pizzardi, in mezzo ad un bagno di folla. Vi fu anche un ricevimento con festa da ballo nel Teatro Comunale con il buffet allestito dalla pasticceria Majani che si protrasse fino all’alba. Ed infine il pellegrinaggio a San Luca. Ma prima di tutto la preghiera in San Petronio con la recita del Te Deum… e qui iniziarono i problemi.
Il Capitolo di San Petronio (ossia l’insieme dei tanti sacerdoti che gestivano la Basilica) era formato, in gran parte, da preti più vicini allo Stato Pontificio, devoti a Papa Pio IX, che mal vedevano la nuova famiglia reale. Tutti i sacerdoti presenti in Basilica, tranne due, avvertiti della visita del Re Vittorio Emanuele, infatti decisero di “…restare passivi e non intimare alcuna sessione”, come riportano i verbali del Capitolo di San Petronio.
Il Re entrò in città da Porta Santo Stefano. Sarebbe dovuto arrivare alla sera, ma in realtà alle ore 15 era già in città, ricevuto solo dal Generale Malvezzi e da pochi altri ufficiali, mentre il sindaco e le altre autorità lo raggiunsero direttamente in Basilica. Entrato in chiesa, il Re si genuflesse davanti all’altare e gli venne cantato il Te Deum (importante inno liturgico di ringraziamento che solitamente si canta il 31 dicembre di ogni anno).
Ma tutti i sacerdoti di San Petronio erano in “sciopero” e, per protesta nei confronti del monarca, si erano dati malati ovvero si erano allontanati da Bologna. La Prefettura fu costretta pertanto a reclutare altri sacerdoti (promettendo soldi e prebende varie) dai comuni della provincia di Bologna, dalla montagna e perfino dalla vicina Toscana.
Ma questa “accozzaglia” di sacerdoti non avevano mai cantato insieme (alcuni erano anche stonati o non conoscevano la musica). Per cui il risultato fu pessimo, nonostante “…si disse nei pubblici fogli della Rivoluzione che l’eletta del clero avea in San Petronio accolto e festeggiato Sua Maestà… Bugia più madornale non potea dirsi!” (atti dell’Archivio di San Petronio).
Secondo lo storico bolognese Mario Fanti (“Religione, Politica e città – memorie di fatti accaduti nella Basilica di San Petronio nei primi anni dell’Unità d’Italia”, Editore Fabbriceria di San Petronio, Bologna), infatti, solo due sacerdoti di San Petronio rimasero ad omaggiare il Re, esattamente il canonico Cesare Pasi ed il priore Giovanni Battista Bontà. Il canonico Pasi, fin dal 1849, si era distinto perché girava per Bologna indossando la fascia tricolore e spesso aveva sguainato la spada durante la resistenza agli austriaci. Il priore Bontà era invece professore di filosofia e matematica al Seminario Diocesano e fu incaricato di leggere un devoto messaggio di saluto al Re prima della recita del Te Deum in Basilica: “Sire, dappoichè la Provvidenza dispose che queste provincie delle Romagne avessero a passare sotto i dominio di Vostra Maestà ed a formare parte integrante della Monarchia, noi umili sacerdoti della Chiesa di Bologna, chinando la fronte ai voleri di Dio ne adorammo i segretissimi imperscrutabili giudizi”.
Alla fine della lettura il Re chiese però una copia del discorso che il priore Bontà non gli volle dare subito, dicendo che l’avrebbe fatto avere il giorno seguente, dopo averlo sistemato e scritto in bella copia. Allora il Re Vittorio Emanuele “…glielo prese di mano e diede al clero una bellissima voltata di spalle”. I rapporti quindi non erano idilliaci, neppure con i sacerdoti “amici”. Si dice che avesse strappato il foglio dei saluti dalle mani del sacerdote perché aveva timore che lo stesso lo pubblicasse modificato nei giorni seguenti, “…secondo al loro testa, per salvare capra e cavoli… ma il tratto loro usato dal Re rese vana questa doppiezza”, si legge nei resoconti della Basilica di quei giorni.
Per questo loro “tradimento” i due sacerdoti della Basilica ricevettero un cospicuo compenso dalla Prefettura per la celebrazione della Messa ed il canto del Te Deum, una pensione mensile di 80 franchi ed il Bontà fu anche eletto nella Congregazione di Carità e divenne cappellano del Liceo Comunale e conquistò altri importanti incarichi. Anche il Pasi ebbe sussidi e prebende.
Negli anni successivi i due sacerdoti si pentirono di questa loro scelta, e nel 1865 chiesero scusa alla Chiesa, ritrattarono le loro opinioni patriottiche e ritornarono all’interno della gerarchia ecclesiastica, conservando “la loro qualifica canonicale – racconta Mario Fanti – previo un periodo di esercizi spirituali”.
Gli stessi due sacerdoti, alcune settimane dopo il Te Deum, intervennero comunque presso il Re per chiedere la grazia per il Primicerio di San Petronio, monsignor Gaetano Ratta, che era stato arrestato per aver reso noto al clero il divieto del canto del Te Deum per ordine di Roma. Poi Ratta venne condannato a tre anni di reclusione e a 2mila lire di multa, ma il Te Deum non lo cantò mai. Anche gli altri sacerdoti nel “…giorno 1 maggio fecero vacanza dal coro… e dalla città dove temevano qualche insulto per essersi rifiutati di accogliere Sua Maestà; dei Canonici andarono in campagna!”.