La saggezza della cultura contadina nei proverbi di una volta
di Adriano Simoncini
(articolo pubblicato nel numero uscito nell’inverno 2016)
Nel mondo contadino fin che duravano l’estate e il bel tempo si lavorava nei campi, le giornate erano lunghe e la sera, se non si era troppo stanchi, si scambiavano quattro chiacchiere sull’aia. Ma con l’arrivo della brutta stagione le stalle divenivano il luogo dove le famiglie si potevano incontrare al caldo. Mucche e buoi riscaldavano l’ambiente. Si trecciava la paglia, filava la lana, intrecciavano panieri di vimini e intanto si chiacchierava e rideva – e i giovani amoreggiavano trepidi negli angoli meno illuminati. A volte, ed erano sere attesissime e affollate, c’era anche e fulài, il folaio o narratore di favole, che veniva da via, e tutti pendevano dalla sua bocca. Storie di spiriti, eventi straordinari, animali parlanti, streghe, maghi, diavoli… Addirittura poteva esserci qualche acculturato che recitava a memoria la Divina Commedia o la Gerusalemme liberata, o raccontava di Orlando a Roncisvalle e le avventurose vicende di Guerrin meschino.
Nelle stalle, nei seccatoio delle castagne e attorno al focolare anche si proponevano proverbi, indovinelli, scioglilingua, filastrocche, stornelli… La sera si mutava in notte e giungeva l’ora d’andare a dormire. Ecco di seguito uno scampolo di questi prodotti della cultura contadina montanara. Un indovinello suggerito dall’oralità:
rossa rusióla
c’la chenta in gabióla
se secca a l’avésset
cusa dirésset?
Rossa rossiccia / che canta in gabbia / se secca l’avessi / cosa diresti?
Un altro proprio della quotidianità contadina:
bienc bianclìn
fiól ed plizìn
an è chéren né òs
e porta e sel adòs.
Bianco bianchino / figlio di pelliccino / non è carne né osso / e porta il sale addosso.
Il seguente è femminile:
a vòg a la fnèstra
a i avénz con la testa.
Vado alla finestra / ci resto con la testa.
Le risposte ai tre indovinelli sono a fine articolo. Ed ecco una filastrocca (in dialetto zirudèla) autoironica:
me a son vec’ e birichίn
a i ò dal poti e di quatrίn
ma si vόi spènder tόt
an fòg brisa la ciavadura ed l’όss.
Io sono vecchio e birichino / ho delle sciocchezze e dei quattrini / ma se li voglio spendere tutti / non faccio nemmeno la serratura dell’uscio.
Questa invece è a spregio di ragazze forse ritrose alle profferte dell’autore:
A i è un brenc ed ragazèli
che lor as pénsen d’èser bèli
ma s’a i avì fat chés
a i è chi à i bafi sotta a e nés.
C’è un branco di ragazze / che si pensano d’essere belle / ma se ci avete fatto caso / c’è chi ha i baffi sotto il naso.
Alle veglie, soprattutto a quelle organizzate dalle priore, capitava che si cantassero stornelli alla maniera toscana, perché vi convenivano anche giovanotti dal crinale. Ed erano sfide argute a voler piacere e far ridere. Iniziava il primo a sfida:
se vuoi venir con me a cantar stornelli
levati la mattina avanti i galli
e faremo a chi li sa più belli.
L’altro rispondeva provocatorio a invelenire la tenzone canora:
tu canti bene, ma non hai punto voce
mi sembri un calabrone in cima a un noce…
Fuori nevicava. Veniva notte o addirittura l’alba, troppo bello per i giovani restare insieme, sia pure a trecciare e a spagliare. (risposte agli indovinelli: la lingua / il formaggio / il bottone).