Le risse nei teatri bolognesi da Marinetti alla Bella Otero

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Nel 1609 per riportare ordine in città il cardinal legato Benedetto Giustiniani fu costretto ad emanare un bando per vietare gli eccessi verbali e i fischi durante gli spettacoli: chi tirava un ortaggio si beccava cinque anni di carcere

Di Serena Bersani

Marinetti

Il 19 gennaio 1914 al Teatro del Corso, locale che si trovava in via Santo Stefano andato distrutto durante un bombardamento della seconda guerra mondiale, la “Serata futurista” messa in scena dal padre della corrente d’avanguardia Filippo Tommaso Marinetti passò alla storia come uno degli eventi più movimentati tra i tanti avvenuti nei teatri cittadini. Marinetti – arrivato in città con i più famosi artisti futuristi, tra cui Carlo Carrà e Umberto Boccioni – già nel pomeriggio aveva scioccato i presenti a una lezione universitaria facendo un discorso contro l’utilità della cultura pieno di affermazioni anticlericali, antisocialiste, antipacifiste e antidemocratiche. E aveva raccolto più fischi che applausi. In serata si presentò in un teatro gremito di pubblico diviso tra seguaci e fieri oppositori del futurismo o, più specificatamente, del marinettismo. Non appena il leader del movimento comparve in scena per enunciare il suo programma politico, dalle tribune partì un fitto lancio di frutta e verdura di scarto, seguito dal getto di oggetti di ogni tipo tra cui un sedile di gabinetto. Costretto Marinetti al ritiro dietro alle quinte insieme ai suoi sodali, la furia popolare passò dal palco alla platea e al loggione con vere e proprie risse tra spettatori di opposta opinione. Ma la rissa epocale fu quella che andò in scena nella notte al Caffè San Pietro, dove la compagnia si era rifugiata all’uscita da teatro inseguita da fan e avversari. Botte da orbi e arredi fatti a pezzi con danni stimati intorno alle cento lire. Ci sarebbe stato da ridere se non fosse che si era alla vigilia della prima guerra mondiale, dove le idee guerrafondaie dei futuristi si concretizzarono drammaticamente.

Benedetto Giustiniani

Gli esiti animati della “Serata futurista” vantano però una lunga tradizione sotto le Due Torri. Fischi, insulti, pernacchie, lazzi dal loggione (il più noto è il mitico “di bén sò fantèsma…”), ma anche lancio di ortaggi, frutta e uova marce. Fino alle risse e allo sfoderare delle armi. La vita nei teatri bolognesi nei secoli passati è stata spesso all’insegna delle intemperanze di un pubblico portato più alla turbolenza che al bon ton, tanto che a un certo punto dovettero essere emanate leggi specifiche su come ci si doveva comportare in questi luoghi di spettacolo molto amati e frequentati da cittadini di ogni estrazione sociale. Il 20 dicembre 1609 il cardinale legato Benedetto Giustiniani – spedito a Bologna da papa Paolo V per riportare ordine in una città in preda alla delinquenza – emanò un bando per vietare gli eccessi verbali e i fischi durante gli spettacoli. Per i trasgressori erano previste pene corporali : “Che nissuno ardisca impedire i commedianti con stare avanti loro mentre recitano o con gridare o con fischiare, sotto pena di tre tratti di corda da darsi subito o di tre mesi di prigione”. E per chi avesse osato tirare frutta e verdura in segno di disprezzo erano previsti addirittura cinque anni di carcere o di esilio. Se poi si fosse arrivati a mettere mano alle armi, ci sarebbe stata la pena di morte immediata. Del resto il bando precisava che era vietato portare armi a teatro, a parte la spada, pena dieci anni di galera e trecento scudi di multa. Le intemperanze del pubblico dovevano essere tali che il bando proibiva anche la vendita di generi di conforto in quanto, in mano ai più scalmanati, avrebbero potuto trasformarsi in oggetti da lanciare sui teatranti o per colpire i vicini di platea: “Né vi sia chi ardisca portare o vendere nella sala delle commedie né dentro il palazzo alcuna mangiativa o da bevere per quelli che vanno alle commedie, sotto pena di tre tratti di corda e cinque anni di galera”.

Gaetano Gattinelli

Le cronache locali registravano con frequenza proteste e parapiglia a teatro, scatenati talvolta da futili motivi e non di rado da ragioni politiche. Troppo spesso, infatti, il pubblico faticava a tenere distinta la realtà dalla rappresentazione e da ciò scaturivano equivoci di portata non indifferente. Il 23 novembre 1846 al Teatro del Corso, durante la messa in scena di “La famiglia di Cristiano VIII re di Danimarca” di Eugène Scribe, l’attore Gaetano Gattinelli si lasciò sfuggire una battuta non prevista nel copione contro gli stranieri, accusati di vivere e mangiare alle spalle dei cittadini. In sala erano presenti le guardie svizzere del cardinale legato, dal quale esse andarono subito a protestare poiché avevano inteso rivolta a loro l’allusione ottenendo la soppressione delle repliche. La sera successiva venne infatti messa in cartellone un’altra commedia, ma la folla dei presenti cominciò a protestare chiedendo venisse replicato il “Cristiano VIII”. All’ordine di far sgomberare il teatro, il pubblico reagì rovesciando le poltrone della platea e facendo volare le panche della galleria. Alla fine lo spettacolo non andò in scena e ci furono tre arrestati.
Sempre al Teatro del Corso, l’8 gennaio 1874, una battuta del copione del “Rabegas” di Sardou venne accolta con una selva di fischi e urla di protesta, tanto che il regista dovette chiudere il sipario. La battuta contestata era quella che definiva un personaggio “commesso viaggiatore della libertà”, nella quale si ravvisava un riferimento a Garibaldi. Scoppiò un putiferio fra opposte correnti di pensiero, che continuò anche dopo l’uscita da teatro sotto il portico e nel vicino caffè.

Nel 1848, anno “caldo” per i noti eventi storici, le questioni politiche contaminavano tutti gli aspetti della vita, anche quelli che avrebbero dovuto essere soltanto ricreativi. Spesso poi gli spettatori si identificavano con i personaggi o faticavano a scindere l’attore dalla figura interpretata, come accadde in occasione della messa in scena di un drammone apologetico scritto da Agamennone Zappoli all’indomani della cacciata degli austriaci dopo la memorabile battaglia dell’8 agosto. Il 28 dello stesso mese venne dunque rappresentato all’Arena del Sole un testo scritto in meno di venti giorni dal titolo “La memorabile vittoria dell’8 agosto sulla Montagnola ovvero il trionfo del Popolo Bolognese contro i barbari tedeschi”. Ad assistervi vi erano anche molti dei protagonisti di quella epica giornata, ansiosi di veder riprodotte a teatro le proprie gesta. Per questo gli attori che interpretavano gli austriaci sul palcoscenico, timorosi per la propria incolumità, fecero diffondere una nota in cui si diceva che erano costretti a rappresentare le parti degli austriaci loro malgrado e che non ne condividevano affatto il pensiero, pregando «gli uditori a volere ascoltare gli iniqui pensieri e le imprecazioni che i personaggi che figurano i tedeschi scagliano contro i Bolognesi e contro tutti gli italiani».

La Bella Otero

Ma, antipatie politiche a parte, i bolognesi quando si tratta di manifestare dissenso a teatro non hanno mai guardato in faccia a nessuno, comprese le star del momento. È ciò che accadde la sera del 28 gennaio 1902 al Teatro Brunetti (attuale Duse), dove andava in scena la Bella Otero, la ballerina spagnola osannata sui palcoscenici di tutto il mondo, sex symbol della Bella Epoque. Il suo spettacolo non piacque e venne fischiata sonoramente dal pubblico, tanto che dovette uscire senza farsi notare per evitare la folla che rumoreggiava in via Cartolerie. Solo uno spettatore, notato in un palco del teatro e – lui sì – applaudito e omaggiato a lungo dai presenti, non concordava con il giudizio del pubblico: era Gabriele D’Annunzio che, invaghitosi della diva, la seppe ripagare con le sue attenzioni del giudizio sfavorevole espresso in maniera così brutale dal pubblico bolognese.

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