La saggezza della cultura contadina nei proverbi di una volta
di Adriano Simoncini
(articolo pubblicato nel numero uscito nella primavera 2017)
Ancora fino ai primi anni ’50 il mezzo più rapido per spostarsi erano i cavalli. Pochissime le auto in circolazione: le possedevano il dottore, il veterinario, qualche padrone di poderi. Mentre di cavalli ce n’erano tanti. E tanti erano gli asini e i muli, animali oggi in estinzione. Secondo il censimento agrario del 1930 nel territorio dei comuni cui si rivolge la rivista Savena Setta Sambro gli asini – perché tratteremo dell’asino – erano in totale ben 573. Ma non è del perché di questa abbondanza che vogliamo parlare, bensì dell’influenza sulla lingua, e in particolare sui proverbi, della cospicua presenza di questo animale accanto a noi da millenni.
Con l’asino, detto più comunemente sumàr (somaro, da soma perché il portarla era suo compito primario) il rapporto era talvolta conflittuale, almeno a parole. Si legga il seguente:
A fer de ben a l’èsen e tra ed chelz
a far del bene a l’asino tira calci.
In realtà il somaro era un paziente servitore del montanaro, che, come succede verso i troppo buoni, spesso ne approfittava, stancandolo più del sopportabile: l’andata al mulino col sacco del grano o del frumentone, nel bosco per la legna (soma era appunto una misura di quantità), nella vigna e nei campi per ogni occorrenza: serviva anche da modesta cavalcatura. Allora l’andargli attorno, la sera, magari per lisciargli il pelo a pulirlo, poteva suscitare reazioni d’insofferenza. Donde il detto. Che per metafora veniva esteso a chi, temuto ignorante e cattivo (in montagna èsen e sumàr valgono appunto così), si mostrava ingrato ai benefici ricevuti.
A proposito d’ignoranza, d’ottusità ecco il seguente:
t’é pió indré che la còvva ed l’èsen
sei più indietro che la coda dell’asino.
Che, come si sa, è l’estremità posteriore dell’animale e dunque arriva per ultima. Come ultimo ad arrivare – e qui s’intende di comprendonio – è colui cui si rivolge il detto. Pur così bistrattato, anche l’asino trovava, a forza di lamentarsi quand’era stagione d’amori, con chi accoppiarsi:
l’ésen e ragna tent fin ch’e n’à trovà e compagn
l’asino raglia tanto fin che non ha trovato il compagno.
Per dire che non c’è persona per quanto poco desiderabile che non trovi, se cerca con ostinazione, chi la prenda per compagna di vita. Certo non sarà una gran partito, di necessità essendo un suo simile, ma non è detto. Perché, ammonisce ancora il proverbio:
an stimér un sumar da zèzer
non stimare un somaro sdraiato (zèzer, giacere).
Gli animali, e per traslato gli uomini, non vanno giudicati dalle apparenze. Un somaro a giacere, come un uomo in ozio, può apparire di buona o cattiva complessione, vigoroso o fiacco. Per avere inconfutabili certezze occorre vederli attivi nel lavoro, nell’impegno quotidiano, nel fare. È comunque un fatto che
la bona greppia la fa la bona bestia
la buona greppia fa la buona bestia.
Se l’animale è trattato bene, con cibo abbondante e nutriente, risponderà con solerzia alle pretese anche faticose del padrone. Così nei rapporti di lavoro fra uomini. La giusta paga e il rispetto per la dignità del lavoratore sono il miglior stimolo all’impegno. Si evitano o comunque si riducono a questo modo le occasioni per sfogare la propria ira in invettive come questa che segue: sumar da bròza / somaro da biroccia, insulto rivolto ai riottosi, ai testardi che rifiutano di collaborare e di risponder e alle richieste di chi ha potere decisionale su di loro. Come l’asino destinato a tirare il carretto, che deve solo faticare senza esprimere abilità, come invece il più duttile somaro da soma.
Quanto sopra a conferma come sia proprio dei proverbi aver significati che trascendono la lettera.