La saggezza della cultura contadina nei proverbi di una volta
Di Adriano Simoncini
(pubblicato nel numero uscito nell’autunno del 2015)
Ancora per tutti gli anni ’30 del Novecento dal nostro Appennino si emigrava per guadagnarsi il pane. Emigranti stagionali i montanari: in Germania, in Francia, in Belgio – ma qualcuno s’avventurava anche oltre oceano e dava addio al campanile – o, meno lontano, in Maremma. Partivano dai borghi del crinale a confine con la Toscana: da Castel dell’Alpi, Piano del Voglio, Baragazza, Castiglione, Camugnano, Granaglione… D’inverno a casa non c’era lavoro per tutti, e se non eri contadino in un buon podere dovevi partire:
andén véia a caval di Sènt e a turnén a caval ed Sen Iusèf /
andiamo via a cavallo dei Santi (1 novembre) e torniamo a cavallo di San Giuseppe (19 marzo).
Era il detto che indicava le date di partenza e di ritorno – con l’espressione ‘a cavallo’ s’intendeva ‘circa’, ma era anche un ironico riferimento al cavallo delle braghe. Perché s’andava a piedi. Centocinquanta, duecento e oltre chilometri, meta le terre di Grosseto e di Massa. Del resto i montanari erano instancabili camminatori. Sulle spalle un mezzo sacco di farina gialla e un paiolo per cuocersi la polenta lungo il cammino, che durava almeno tre giorni. Chi aveva di suo gli attrezzi da lavoro, piccone e badile, ma soprattutto la carriola, era ricercato e meglio pagato. Se la spingeva innanzi, un passo dopo l’altro, con dentro le sue cose.
A piedi dunque, in gruppi o a coppie, si poteva andare passo passo in Maremma. Ma, giunti, lì finivano fervori e speranze. Le condizioni di vita erano tali da stravolgere fin l’indole delle persone. Lo testimonia il detto:
in Maremma as sén ardόtt
ognun e pensa per sé e Dio per tόtt
in Maremma ci siamo ridotti
ognuno pensa per sé e Dio per tutti.
Anni di giovinezza consumati nelle macchie e nelle forre della Maremma ad abbattere querce, scavare fossi, fare scassi per conto d’un padrone che neanche ti dava da mangiare. Si tornava a casa con pochi spiccioli. C’era sempre qualcosa, a detta di chi comandava, che non era andata bene: la legna non s’era venduta, il costo degli operai aveva superato la resa del lavoro… i conti per il bracciante non tornavano mai. Ecco una filastrocca apparentemente burlona che conferma le spiacevoli sorprese della Maremma:
vent Mingόn c’andén in Maremma
a cumprèr onna pégra femna
e quent l’arivò a cà l’era un muntόn
borda borda burdigόn
vieni Mingone che andiamo in Maremma
a comprare una pecora femmina
e quando arrivò a casa era un montone
borda borda bordigone.
Capanni di frasche per dormirvi che i montanari stessi costruivano, polenta e polenta come cibo quotidiano, mele selvatiche, pere e nespole quando se ne trovava, topi a miriadi e attenti agli avanzi, acqua al ginocchio nelle fonde, fatica da buio a buio, il desiderio del borgo e della famiglia. L’acqua bisognava andare a prenderla con un barilotto alla sorgente, magari un’ora lontana. Solo per bere e cuocere, lavarsi quasi mai. Del resto la canzone lo avvertiva:
chi va in Maremma e lascia l’acqua bona
perde la gama e più non la ritrova
chi va in Maremma e lascia l’acqua fresca
perde la gama e più non la ripesca…
Quelli dell’alta valle del Savena – della zona cioè dove fa il faggio – andavano in Maremma soprattutto come tagliatori, ricercati per l’abilità consegnata di padre in figlio per generazioni. Partivano a gruppi di borgata – dalla Cà, dalla Fossa, dalla Valdirosa… S’inerpicavano lungo il crinale verso la strada della Futa. Una volta raggiunta – il bosco alle spalle – si toglievano le scarpe e se le appendevano al collo per non consumarle. Se le rimettevano davanti ai padroni, un’annosa cotenna proteggeva le piante dei piedi. Quando stavano per tornare, di primavera, le loro donne salivano la sera sul Bastione e accendevano un fuoco sulla cima del monte, alto, che bruciasse tutta la notte e brillasse lontano a indicare la via a figli e mariti in cammino.