La Pasqua nella tradizione contadina

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Dal romanzo su una famiglia contadina nell’Appennino degli anni Quaranta uno spaccato sulla giornata di festa che annuncia la primavera vissuto da una bambina di otto anni

di Alma Gamberini
(pubblicato nel numero uscito nella primavera 2011)

I bambini in primavera – siamo agli inizi degli anni ’40 – aspettavano la Pasqua, festa a lungo preparata.

Diversi giorni prima della benedizione pasquale si procedeva a una generale ed accurata pulizia della casa, anche perché allora il parroco portava la benedizione in tutti gli ambienti dell’abitazione. Si lavavano le gambe di tavola e sedie, si portavano fuori le assi di sostegno di materassi e paglioni e si sbollentavano per eliminare dagli interstizi le cimici. Si lavavano i vetri delle finestre e si pulivano bene i pavimenti. Si faceva il bucato con la cenere e si andava a completare il lavaggio al torrente. A Maria e Angiolino, che erano i più piccoli della famiglia, venivano affidati i lavori più leggeri e di precisione, come staccare dalla parete, smontare e pulire la cornice del quadro della Madonna. Davanti al quadro, su un altarino, c’era sempre un vaso con le rose finte, vecchie di un anno e ormai sbiadite e polverose. Loro due le gettavano e con filo di ferro e con carta appena comprata creavano nuove rose rosse e gialle. Infine, inserendo l’asciugamano fra collo e colletto, con l’acqua di ortiche bollite, tutti si lavavano i capelli a lungo trattati con sonza o petrolio anche per eliminare l’infestazione da pidocchi.

Fra le dita non mancavano a prudere fastidiose le acquose gallerie dell’acaro della scabbia.
Poi giungevano gli ultimi muti giorni della settimana santa, in cui le campane restavano legate, privando la gente dei loro messaggi quotidiani.
E il venerdì notte si andava all’ultima funzione della quaresima.
Nella chiesa, appena rischiarata dai ceri, i chierici accompagnavano il parroco alle varie stazioni portando chi la sedia che serviva da inginocchiatoio per il prete, chi la croce con appesi gli attrezzi della crocifissione e il gallo di San Pietro.
A ogni stazione il coro intonava una strofa del Teco vorrei Signore e infine il Miserere a più voci, di grande effetto che Maria, bambina di 8 anni, non riusciva a cantare perché le si inumidivano gli occhi e le si incrinava la voce, non per le parole latine che riusciva a capire solo in minima parte, ma per la supplica accorata che i cantori esprimevano con la voce.
Le campane tornavano a suonare da tutte le chiese a mezzogiorno del sabato santo e con loro tornava il buonumore e arrivava la Pasqua.
Non più la solita polenta e le solite minestre dei giorni feriali, non più il crudele digiuno del venerdì santo, ma profumi appetitosi riempivano la casa: profumo di gallina che bolliva nella pignatta a assieme alle budella, al polpettone e alla carne di manzo, che si comprava a natale e a Pasqua; profumo di ciambelle e di budino. E a colazione le uova benedette. Ciascun bambino, se figlio di contadini, poteva ottenere ed esibire con orgoglio anche una decina di uova sode, con le quali si usava fare la gara della resistenza dei gusci.

A metà mattinata bisognava vestirsi per la Messa. E per un giorno intero vestiti nuovi o rimasti chiusi nella cassapanca dall’autunno precedente prendevano il posto di quelli rattoppati di tutti i giorni. Maria si metteva il bell’abitino a fiori, lavorato a nido d’ape sul petto, allungato da Nina, ancora quasi nuovo ma troppo leggero per quei giorni e la rebecca di fine stame turchese coi bottoni di vetro e le maniche un po’ corte; il capellino di paglia coi fiori di peltro, comprato al mercato e le scarpe ricandeggiate con la biacca.
I richiami che le campane di Stiolo, fra doppi e tirate basse, mandavano ai parrocchiani per avvertire che l’ora della messa si avvicinava erano tre, l’ultimo, il tocchino, sottolineava che mancavano quindici minuti all’inizio della funzione. A questo suono si cercava affannosamente il velo e il libricino da Messa e via di corsa su per la salita. Ultima a uscire era la mamma. Si tirava dietro la porta e si gettava in testa lo scialle nero. A cinque minuti dall’inizio Don Luciano, che aveva bisogno che il coro fosse al completo per iniziare la Messa cantata, usciva dalla chiesa preoccupato, attraversava il piazzale controllando continuamente l’orologio, dava un’occhiata intorno per accertarsi se fossero arrivate le ragazze del Capannotto, poi si affacciava al muro di cinta e guardava anche fra la gente che saliva, augurandosi che non fossero ancora una volta in ritardo.

Il racconto è liberamente tratto dal libro di Alma Gamberini “Le scarpe dipinte”, Giraldi Editore. Gamberini con Pendragon ha pubblicato “Le lune di Marina”.

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