In via San Felice è custodito un capolavoro che Carracci dipinse nel 1583 a soli 23 anni. Arditamente innovativa, l’opera subì le dure critiche del canonico Malvasia nella sua opera “Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi”, edita a Bologna nel 1678.
di Gian Luigi Zucchini
(articolo pubblicato nel numero uscito nell’autunno 2018)
Annibale Carracci aveva quasi ventitré anni quando dipinse, nel 1583, la sua prima grande tavola ad olio per la chiesa di San Nicolò in strada San Felice. La pala era collocata sull’altare della seconda cappella a destra, della famiglia allora dei Macchiavelli poi dei Mendicanti. Nel 1944 Bologna subì un ennesimo bombardamento, e la chiesa, colpita da una bomba, fu molto danneggiata. La pala fu allora provvisoriamente alloggiata presso la Sovrintendenza, che ne curò anche il restauro. Dopodiché fu collocata nell’attuale sede, cioè in via San Felice presso la chiesa di Santa Maria della Carità.
La pala si trova ora nella prima cappella a sinistra dell’entrata, e subito attira l’attenzione del visitatore perché solitamente è ben illuminata. Rappresenta una ‘Crocifissione con i dolenti e i santi Bernardino da Siena, Francesco e Petronio”, e dovette sembrare, a quel tempo, troppo arditamente innovativa, se diversi pittori bolognesi, e non solo, la criticarono anche piuttosto rudemente. Ma Bologna, si sa, è sempre stata piuttosto restia ad accogliere novità, per non dire avanguardie e sperimentazioni varie, tanto che anche la pala di Annibale fu oggetto di molti ingenerosi commenti. A proposito del Cristo in croce, fu detto che la figura era troppo triviale, e si malignò anche sull’artista, perché – si diceva – “sentendosi senza fondamento e povero di partiti”, poteva benissimo prendersi come modello un facchino, denudarlo e “postogli un panno addosso, copiarlo di peso sul quadro”, facendosi così “grande onore con poco capitale d’ingegno”. E, si aggiungeva, “esser quello uno stile da praticarsi nell’accademia del nudo, non da servirsene in un quadro d’altare”. Questi maligni pettegolezzi sono riferiti dal canonico Malvasia, che nella sua opera “Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi”, edita a Bologna nel 1678, si fa portavoce dei commenti relativi all’opera, tra cui voci ricorrenti che, con sussiego aristocratico, facevano notare come la pala mancasse di “decoro e nobiltà, poiché eseguita secondo metodi indotti dalla natura, sempre imperfetta”, così da dar luogo ad “operazioni basse e plebee, e non invece dall’arte, che quella addomestica e corregge”.
Insomma, una stroncatura vera e propria, mentre invece, se si analizza l’opera con attenzione, si vede come essa possa essere annoverata tra i capolavori di Annibale, considerando anche l’età molto giovane dell’artista, e la situazione storico-politica dell’epoca. Si era infatti nel pieno della Controriforma Cattolica, cioè quel movimento di reazione alle tesi luterane, accettate da gran parte del nord Europa per ragioni soprattutto politico-economiche, e rifiutate dalla parte più occidentale europea, con Spagna e Francia al primo posto, oltre ovviamente all’Italia, sede del Pontefice. A Bologna poi, seconda città dello Stato Pontificio, era arcivescovo il cardinale Gabriele Paleotti, che aveva largamente commentato la tesi, sostenuta anche nel Concilio di Trento, che l’attività degli artisti restava di grande importanza (in contrasto con i luterani), purché fosse vista soprattutto come “libro degli ignoranti”, la ben nota ‘Biblia pauperum’ con cui furono decorati ed affrescati muri, absidi e cappelle fin dai primissimi tempi del Cristianesimo. Il Paleotti inoltre, nella sua ingente opera in cinque volumi, dava accurate informazioni su come dovevano essere realizzate le opere da esporre nelle chiese, affinché sollecitassero più di ogni altra cosa l’edificazione dei fedeli, inducessero alla pietà e alla preghiera, fossero insomma dei mezzi per alimentare lo spirito religioso nelle comunità. Il giovane Annibale doveva così stare in equilibrio tra la sua visione innovativa dell’arte – non più manierista né tantomeno ispirata a vecchi e superati modelli – e la situazione storica e culturale del tempo; ribadendo però il valore non tanto della realtà colta magari nei suoi aspetti più aspri e deteriori (come spesso facevano il Passerotti ed altri artisti dell’epoca), ma del vero, senza peggioramenti né enfasi. E così nella Crocifissione notiamo una compostezza naturale, una pietà contenuta e senza eccessiva enfasi; poi, insieme alla bellezza della composizione, il fulgore dei colori, l’algido riflesso delle luci soprattutto nel manto di San Petronio, nei composti panneggi delle vesti, e soprattutto nel cielo tumultuoso, già in qualche modo barocco per l’accesa scenografia e l’irruenza di luci corrusche, lo spegnersi degli ultimi sprazzi di sereno all’orizzonte, ed il bagliore quasi elettrico che scaturisce dal corpo del Cristo, con evidenti citazioni del Tintoretto e delle colorazioni veneziane, che forse l’artista aveva già avuto modo di vedere.
Quest’opera, ben nota non solo agli esperti ma anche ai molti interessati all’arte, è sempre visibile nella chiesa di via San Felice, ma scarsamente visitata, probabilmente perché la sua collocazione è sconosciuta al grande pubblico. Ecco quindi un invito a conoscere quest’opera, per chi non l’avesse mai vista o particolarmente notata, ed a rivederla con qualche frequenza, caso mai si passasse da quelle parti.