Alberto Rinaldi, il mito del baseball che affrontò il viaggio americano da pioniere. Per poi tornare a vincere in Italia
Piccole grandi storie dei campioni di casa nostra
A cura di Marco Tarozzi – Foto archivio Bertozzi
Alberto Rinaldi, per chi ama il baseball semplicemente Toro, è un pezzo di storia di una disciplina che arrivò a Bologna insieme a tanti altri sogni americani e che da pochi giorni nel “tempio” del Gianni Falchi ha festeggiato lo scudetto numero 12 della Fortitudo. Su quattro di quei dodici c’è anche la sua firma. E soprattutto c’è la sua impronta, nel senso che Toro è stato uno dei primi talenti puri visti sui diamanti italiani. Tanto forte da attraversare l’oceano per scoprire l’America, a nemmeno vent’anni.
Il viaggio comincia su un campo di periferia all’Oca, fuori porta Lame, alla fine degli anni Cinquanta.
“Abitavo in un ambiente povero della città. Di fronte a me c’era la caserma delle Fiamme Oro, che con la squadra di baseball reclutavano per il servizio di leva i migliori atleti d’Italia. Il campo da allenamento era di fronte a casa mia, mi bastava attraversare la strada. A sei anni ero la mascotte di quel gruppo fortissimo, giocavo con i grandi, mai con i coetanei. Facevo il tappabuchi di tutte le squadre, in tutti i ruoli. Ho imparato da tutti e da solo, ogni giorno. La Serie A raggiunta a sedici anni, con quella scuola, mi sembrò un passaggio naturale”.
La caserma, il cortile di casa, il baseball nelle vene e il mito americano.
“I primi yankees li vidi da bambino, su quel campo. Venne una squadra di Roma, c’erano due americani biondi e ben piantati: uno veniva dallo Iowa, si chiamava Marcinkus. Molto tempo dopo sarebbe diventato cardinale…”.
Il ragazzino cresce così. Nessuna paura, e un talento fuori del comune. Adattandosi a molti ruoli, diventando essenziale.
“Interno, seconda base, terza base, i posti in cui la palla corre velocissima. Imparai a non avere paura di una pallina da baseball, in cortile giocavo con i sassi”.
Uno così è destinato a bruciare le tappe. La Serie A arriva prestissimo, la Nazionale segue a breve distanza. Ma il destino ha altro in serbo, per il ragazzo della Pescarola. Il mito americano che gli va incontro, che viene a chiamarlo.
“Nel 1964 ero con la Nazionale a Ramstein, in Germania, per un ritiro di preparazione all’Europeo, C’era un talent scout che lavorava nell’organizzazione dei Cincinnati Reds, si chiamava Reno De Benedetti. Mi convinse a tentare l’avventura, e convinse anche i miei genitori, perché ero minorenne. Andai negli States in tempi in cui per me l’America era andare in Piazzola a cercare guantoni usati, niente di più. Non c’erano riviste o videocassette, non c’era internet a quei tempi. Fare quel viaggio equivaleva ad andare sulla luna. Io ci misi la spregiudicatezza di un ragazzo di diciott’anni, l’entusiasmo e forse anche un po’ d’incoscienza”.
Un bolognese alla corte dei giganti, deciso a conquistare il suo spazio.
“Mi accompagnò Giulio Glorioso, lanciatore che da noi era un mito, a quell’epoca. Arrivai a Tampa, per lo springtraining dei Cincinnati Reds e subito fu allenamento duro. Mi alzavo alle sette del mattino, mi allenavo sei ore al giorno. Era un altro mondo: il gioco era più veloce, prendi e vai, dovevi abituarti. Lo feci, non ero il tipo da soffrire di nostalgia, allora”.
Una stagione negli Usa, interrotta dal problema del servizio militare, che in qualche modo, da una parte o dall’altra dell’oceano, andava assolto.
“Fossi rimasto là, sarei probabilmente stato destinato al fronte, visto che italiani e cubani finivano dritti in Vietnam. Tornai in Italia, feci il servizio di leva e persi l’occasione. Se molli, laggiù non torni più. Un rammarico che mi resta, perché sentivo che alla seconda stagione avrei potuto far meglio. Ma qualche soddisfazione me la sono tolta, come avere in quella pre-stagione un mito come Pete Rose come compagno di squadra, o trovarmi ad affrontare gli Yankees di Mickey Mantle e Roger Maris. Mi vengono ancora i brividi, a ricordare quei momenti”.
Toro Rinaldi torna in Italia ed è un altro. Un campione completo. Negli States gli hanno insegnato a battere, appena rientrato nel nostro campionato vince la classifica dei fuoricampo. La capacità difensiva è potenziata. Gioca tre anni a Parma, ma nel destino c’è Bologna, la sua Bologna. E la Fortitudo.
“Dove c’erano tutti i miei amici. Arrivai nel ’69, e subito vincemmo lo scudetto. Non dico per merito mio, ma qualcosa cambiò nella mentalità. Fin lì, la squadra si era sempre piazzata a metà classifica. Si vinceva, si perdeva, il mondo non cambiava. A me non stava bene. Per me vincere era la normalità, perdere mi faceva soffrire. Lo so che ci sono altre priorità, che la vita è altro. E infatti fuori dal diamante sono una persona che si diverte, che sdrammatizza. Ma in campo ero così, c’è poco da fare”.
Questione di mentalità. Se riesci a trasmetterla a un gruppo, il gioco è fatto.
“Ora ti racconto un particolare che credo aiuti a capire. Io e Glorioso, all’epoca, eravamo tra i pochi in Italia a guadagnare qualcosa col baseball. Quando la Fortitudo mi contattò mi offrì una cifra, e io dissi che mi bastava qualcosa in meno, e che il resto lo dividessero tra gli altri giocatori. Fu un modo per sentirci uniti, e tutti professionisti. Diventammo imbattibili e aprimmo un ciclo”.
Quattro scudetti, una Coppa dei Campioni, una Coppa Italia. La bacheca si riempie, la Fortitudo diventa una seconda casa per Toro.
“Ho giocato fino all’81, ho fatto il vice a Vic Luciani fino all’85. E poi il capoallenatore fino al ’91, e dopo una breve pausa fino al ’95. Nel 2002 mi ha cercato Rimini, offrendomi di allenare. Ma soffrivo all’idea di arrivare ai play-off e trovarmi di fronte la Fortitudo, magari di giocarmela al Gianni Falchi, dove il numero 20 della mia maglia campeggia come una reliquia. Il baseball l’ho vissuto a modo mio, da professionista ma fino a un certo punto. E per me è anche una questione di cuore”.
A quel cuore grande, la Fortitudo Baseball ha detto grazie nel migliore dei modi. Lo ha fatto il 14 luglio del 2000, proprio al Falchi. Sugli spalti la grande storia del baseball bolognese: Vic Luciani, Gianni Lercker, Alfredo Meli, Ricky Matteucci, Kiko Corradini, un giovanissimo Lele Frignani. E l’amico più grande, una bandiera anche lui, Giacomo Bulgarelli. In mezzo al campo, Alberto Rinaldi guardava la sua maglia numero 20, che la Fortitudo aveva deciso di ritirare per sempre per incastonarla nella memoria degli appassionati. E lui, il grande Toro, per una volta inchiodato dalla commozione tra gli applausi e un po’ di imbarazzo, come capita agli uomini tranquilli quando capiscono di essere entrati nella leggenda.