“La Flaminia Minor non esiste”

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L’INTERVISTA – Cesare Agostini e Franco Santi scopritori della Flaminia Militare intervengono sul dibattito che da una trentina d’anni anima la comunità scientifica bolognese (e non solo) alimentato anche dallo speciale sulle genesi delle vie transappenniniche pubblicato a puntate su queste pagine dal Professor Giuseppe Rivalta

di Filippo Benni

(articolo pubblicato nel numero uscito nella primavera 2018)

Il percorso della presunta Flaminia Minor. Le T indicano i luoghi attestati da documenti medievali che riportano i nomi Flaminga, Fiammenga, Flaminia e simili.

Ad oltre due millenni dalla sua costruzione, la cosiddetta Flamina continua a far discutere gli studiosi italiani. Una controversia che va avanti da diversi decenni alimentata anche dallo speciale con il quale il professor Rivalta, dalle pagine di questa rivista, ha raccontato la genesi e i tracciati dei percorsi che nel corso dei millenni hanno collegato Bologna alla Toscana. In questo numero diamo spazio ai due archeologi amatoriali che sul finire del secolo scorso, armati di zappa e badile, hanno riportato alla luce ampi tratti di una strada oggi conosciuta da tutti come la Flaminia Militare e percorsa ogni anno da migliaia di turisti. Per capire bene la controversia però dobbiamo fare un salto di due mila anni indietro nel tempo. Tito Livio nella sua Storia di Roma racconta che nel 187 a.C. i due consoli in carica, Marco Emilio Lepido e Caio Flaminio, dopo avere sconfitte le tribù dei Liguri insediati sull’Appennino tosco-emiliano, furono incaricati dal Senato di costruire due importanti strade: il primo una strada da Piacenza a Rimini per collegarsi con la già esistente via Flaminia, costruita dal padre di questo Flaminio nel 220 a.C. da Roma appunto fino a Rimini; 

Il tracciato della presunta Flaminia Minor passa accanto a Casoni di Romagna

il secondo una strada transappenninica da Bologna ad Arezzo per collegarsi con la via Cassia che già arrivava da Roma a quella città. Mentre il percorso della prima strada, chiamata poi dai Romani via Emilia, é fuori discussione, quello della seconda é stato invece oggetto di ricerche da parte di studiosi di storia e topografia antica per tutto il XX secolo, essendo essa scomparsa già nell’Alto Medioevo, tanto da non lasciare tracce evidenti sul territorio attraversato e nella memoria degli uomini. Fino agli scavi di Cesare Agostini e Franco Santi.

Agostini e Santi, da tempo asserite la strada transappenninica citata da Livio è la Flaminia Militare e collegava Bologna alla Toscana passando dalla Futa, sulla dorsale tra Savena e Setta. Altri studiosi asseriscono invece che passasse sulla dorsale tra Idice e Sillaro, la fanno partire da Claterna e la chiamano Flaminia Minor…ci spiegate da dove nasce questa controversia?

“Fino agli anni ’70 il percorso di questa strada è rimasto misterioso; non erano stati trovati documenti antichi che testimoniassero almeno parte del suo tracciato, né tanto meno prove archeologiche della sua esistenza. Il merito (o meglio il demerito) di avere aperto un apparente spiraglio su questo buio totale va attribuito al  Professor Nereo Alfieri, docente di Topografia dell’Italia Antica all’Università di Bologna, che nel 1974 ha creduto di avere individuato la strada costruita dal Console Caio Flaminio sulla dorsale fra il fiume Idice ed il torrente Sillaro e per primo ha dato a quel percorso il nome di Flaminia Minor. Pur avendo noi sincera stima e rispetto nei confronti dell’autorevole Docente, purtroppo scomparso nel 1995, non possiamo astenerci dal raccontare la nostra verità, anche se totalmente contraria alla sue ipotesi di studio.

Cosa ha indotto il professor Alfieri a formulare la sua ipotesi sulla Flaminia Minor?

Ha creduto di individuare la testimonianza del passaggio di questa strada in un documento del 1315 che ricorda, fra le dipendenze della Pieve di Barbarolo, un “Ospitale Sancti Bartholomei de Flamenga”. Traendo spunto dal  toponimo Flamenga, considerato come derivazione dal nome Flaminia, l’ha ritenuto un sufficiente indizio per ipotizzare che in quel luogo ci fosse stato l’antico passaggio di una romana via Flaminia, il cui nome poteva derivare dal Console Caio Flaminio. Da questo presupposto (per noi palesemente sbagliato) ha concluso che, una volta individuato un tratto montano della Flaminia Minore, si deve necessariamente presumere che la strada abbia seguito lo stesso crinale sia verso sud, fino al passo della Raticosa, sia verso nord fino alla via Emilia, in corrispondenza della località “ Maggio” ove esisteva l’antica Claterna.

Tratto di basolato rinvenuto a Monte Poggione. Si noti l’estrema precisione della costruzione della strada che, nonostante si trovi su un tratto impervio ad oltre 800 metri sul livella del mare, è perfettamente rettilinea.

Qual è stato per voi l’errore del professor Alfieri?

Si può comprendere facilmente l’errore etimologico tenendo presente che i Romani a quella strada del 187 a.C. non hanno mai dato un nome e tanto meno il nome di Flaminia. Come può essere che il toponimo ”De Flamenga” tramandi il ricordo dell’antico passaggio di una strada Flaminia se questa strada non é mai stata chiamata Flaminia dai Romani? Ovviamente perchè quel toponimo deriva da un nome Flaminia che non ha  alcun collegamento con  la citata strada. Ricordiamo che i Romani, nel 216 d.C., divisero la regione Aemilia (che andava da Piacenza a Pesaro) in due regioni; al territorio da Piacenza alla dorsale fra Idice e Sillaro, fino al passo della Raticosa, lasciarono il nome di  Regio Aemilia e dalla citata dorsale fino a Pesaro la chiamarono Regio Flaminia. Questa bipartizione territoriale é giunta fino a noi, ma attorno al X secolo d.C. la regione Flaminia venne chiamata Romagna. Dove oggi inizia la Romagna allora iniziava la Regione Flaminia. È evidente quindi il toponimo “De Flamenga” trovato dal Prof. Alfieri è derivato dal nome della Regione (Flaminia) e non dalla strada del 187 a.C., mai chiamata Flaminia. Purtroppo, dopo la scomparsa di Alfieri i suoi discepoli hanno doverosamente seguito il suo “peccato originale” e si sono buttati a capofitto a ricercare nei documenti medievali altri toponimi che apparissero come una evoluzione linguistica del nome Flaminia. E così le loro fatiche a tavolino hanno avuto successo, tanto che hanno rinvenuto circa una trentina di toponimi quali Flaminga, Fiamminga, Flaminia, etc  riferiti a luoghi sulla citata dorsale, o nei territori limitrofi, tutti soltanto da Claterna al Passo della Raticosa. Hanno così trionfalmente pubblicato i risultati dei loro studi illudendosi di portare un contributo alla prima ipotesi formulata dal loro “Maestro”. Purtroppo per loro non hanno capito che quei toponimi derivano dalla presenza del confine della Regione Flaminia e non dalla strada costruita da Flaminio.

Cosa vi ha convinto che quei toponimi fossero legati alla regione e non alla strada?

L’ipotetica Flaminia Minor collegava Bologna (Claterna per il prof. Alfieri) ad Arezzo per una lunghezza di 180 chilometri, tutti i toponimi in questione sono stati trovati nei primi 50 chilometri di quel percorso, da Claterna alla Raticosa. Nei 130 chilometri che dividono la Raticosa da Arezzo non ne è stato trovato nemmeno uno. Per una logica proporzione, se i toponimi ritrovati derivassero dalla strada di Flaminio, quanti toponimi nei documenti medievali avrebbero dovuto trovare nel tratto Raticosa – Arezzo dove sarebbe continuata la strada di Flaminio? Non vogliamo esagerare, ma almeno un centinaio. Ed invece non ce n’è alcuno. Questo perché alla Raticosa finiva la Regione Flaminia e con le anche i toponimi. Sarebbe  stata sufficiente questa elementare osservazione  per convincere i fautori della Flaminia Minore a ravvedersi e pentirsi del tempo perso nella ricerca di toponimi inutili ai loro fini.

Oltre ai toponimi esistono altre prove dell’esistenza della Flaminia Minor?

Nei 180 chilometri da Claterna ad Arezzo non hanno trovato neppure un metro quadrato di basolato romano che potesse costituire un indizio a sostegno della loro tesi. Del resto come potevano trovarli se la strada Caio Flaminio non l’ha mai costruita su quel percorso ?

Oltre alla valutazione sull’origine dei toponimi quali altri errori avrebbe commesso Alfieri?

I percorsi a confronto

Nel nostro libro ne elenchiamo altri nove, qui proviamo a spiegarne altri due. Sette chilometri a  sud di Monterenzio Vecchia, sempre su quella dorsale, ci sono alcune case che si chiamano “Casoni di Romagna” (perchè sono sul confine romagnolo); come si sarebbero chiamate se fossero state costruite quando la Romagna si chiamava ancora Flaminia ?. La risposta è ovvia : Casoni di Flaminia. Ma se oggi si chiamassero così, i discepoli dell’Alfieri subito metterebbero nell’elenco dei trenta  toponimi  ritrovati  anche i “Casoni di Flaminia” come  ulteriore prova indiscutibile che le legioni di Flaminio hanno costruito la strada passando da quella località. Inoltre, pur di difendere l’esistenza della Flaminia Minor il Prof. Alfieri, per primo, poi tutti i suoi seguaci, hanno modificato il racconto di Tito Livio spostando la partenza della strada di Flaminio da Bologna (“….viam a Bononia perduxit Arretium”) a Claterna, sostenendo che lo storico romano si era sbagliato. Ma è possibile che si sia sbagliato? Noi  diciamo di no per queste ragioni: Tito Livio era nato nel 59 a.C. a Teolo (sui Colli Euganei in provincia di Padova); conosceva quindi il nostro territorio e senz’altro ha avuto occasioni di venire a Bologna, di vedere la strada in questione ancora perfettamente mantenuta, e forse anche di averla percorsa. Se avesse scritto che partiva da Bologna, ed invece partiva da Claterna, avrebbe perso di credibilità come storico del passato, visto che il suo racconto partiva dalla fondazione di Roma. è come se oggi un giornalista scrivesse che l’autostrada Parma-La Spezia parte da Modena.

Cosa hanno risposto alle vostre osservazioni quelli che voi chiamate discepoli di Alfieri?

Nel corso degli anni, dopo le nostre progressive scoperte archeologiche di numerosi tratti di basolati romani a nord e a su del Passo della Futa, ci aspettavamo che si sarebbero convinti della fondatezza della nostra tesi. Ed invece hanno continuato a contestarla per non ammettere l’inesistenza della Flaminia Minor dato che, come è noto, Caio Flaminio ha costruito soltanto una strada transappenninica. Tuttavia, non potendo negare la presenza di  numerosi tratti di  imponenti basolati, per una continuità di 11 chilometri, li hanno declassati sostenendo che non sono romani, ma i resti di una mulattiera medievale od addirittura che si tratta di una strada rinascimentale o moderna! Giudizi talmente paradossali che equivalgono ad affermare che la Necropoli di Monte Bibele non è celtica, ma è un cimitero di militari tedeschi morti nell’ultima guerra mondiale.

Nel giugno del 1997 Cesare Agostini osserva i resti di una pila del ponte di Colombaiotto sul fiume Sieve, riemersi in occasione degli scavi per la realizzazione della diga del Bilancino (Barberino del Mugello) ed ora inghiottiti dal bacino artificiale.

Come ha accolto le vostre tesi la comunità scientifica?

Se escludiamo i docenti bolognesi discepoli del prof. Alfieri, tutti gli studiosi della materia, italiani ed europei, che hanno seguito le nostre ricerche e visto di persona i basolati, si sono pronunciati senza dubbi in favore della nostra tesi. Citiamo per primo il compianto prof. Giancarlo Susini (a tutti ben noto per aver ricoperto incarichi prestigiosi all’Università di Bologna, in Italia e all’Estero) che è stato il primo a riconoscere – nella maniera più assoluta, disse –  la romanità dei basolati. Poi abbiamo avuto l’approvazione del professor Giovanni Uggeri de La Sapienza, del prof. Leonardo Rombai dell’Università di Firenze, del prof. Vittorio Galliazzo dell’Università “Cà Foscari” di Venezia, del prof. Raymond Chevallier dell’Università di Tours (Parigi) e del prof. Ernst Gamillscheg di Vienna (custode della “Tabula Peuntingeriana”).

Vi siete chiesti perché anche dopo tanti anni, tanti scavi e riconoscimenti c’è  ancora chi vi contesta?

Facciamo molta fatica a credere che qualcuno non abbia capito, ma comprendiamo che è umanamente difficile per loro rinnegare ciò che per decenni hanno sostenuto riconoscendo pubblicamente di essersi sbagliati. Come li giudicherebbe il mondo scientifico, l’opinione pubblica in generale e coloro (pochi in verità) che, confidando sull’esistenza della Flaminia Minor, hanno percorso la dorsale fra Idice e Sillaro illudendosi di calpestare una strada romana?: E che delusione avrebbero le Amministrazioni locali e gli abitanti di quei luoghi che hanno contato sull’esistenza della Flaminia Minor per valorizzare turisticamente il territorio?. Lasciamo ai lettori le risposte. Noi ci limitiamo qui a ringraziare “Nelle Valli Bolognesi”  per averci dato  l’occasione di rendere noti i motivi per i quali riteniamo che la Flaminia Minor non esiste e non sia mai esistita. 

Tutto è iniziato da una moneta
Era il 1977 quando, in una antica cava di arenaria nei pressi di Castel dell’Alpi, Franco Santi trovò una moneta romana. Forgiata in bronzo, a Capua tra il 320 e il 268 a.C, da un lato presentava la lupa intenta ad allattare Romolo e Remo mentre dall’altro l’aquila sul trespolo e la scritta ROMA. Assieme all’amico Agostini si convinsero che quella cava utilizzata oggi da Santi fosse stata utilizzata anche dai Romani, probabilmente per realizzare la strada transappenninica, citata da Tito Livio, che collegava Bologna ad Arezzo. I due, armati di zappa e badile, iniziarono a cercare nel sottosuolo qualche traccia di quella strada sicuri che qualcosa, anche se sepolto da metri di fango e sassi, dovesse ancora resistere. Dopo tanti buchi nell’acqua e due anni di ricerche, finalmente il primo ritrovamento: a Monte Bastione, più o meno dove i vecchi del paese raccontavano del passaggio di una strada romana, nascosto sotto 60 centimetri di terra, nel 1979 i due archeologi per passione portarono alla luce un tratto di pavimentazione lungo 20 metri e largo circa 2 metri e mezzo, esattamente otto piedi romani. Le ricerche durarono più di vent’anni, ed ora i tratti di strada e le tracce di quella imponente costruzione riportati alla luce sono parecchi. Comprese le pile di un ponte romano riemerse dal nulla durante i lavori per la realizzazione della diga del Bilancino, nei primi anni Novanta, ed oggi ri-inghiottiti dal lago artificiale.
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