Le tradizioni popolari della pianura bolognese tra fede, storia e dialetto
Di Gian Paolo Borghi
(articolo pubblicato nel numero uscito nella primavera 2017)
Per potere contrarre matrimonio, un tempo, la dote (la dôta) era un elemento tutt’altro che secondario. Nel mondo rurale, le unioni venivano in genere celebrate tra persone dello stesso ceto sociale (proprietari, affittuari, mezzadri, artigiani, braccianti, ecc.); se tra gli abbienti il matrimonio era anche calcolato come un’occasione d’incremento patrimoniale, tra coloro che erano ai primi gradini della scala sociale, invece, veniva pure considerato come conseguimento di nuove “braccia” da adibire al lavoro dei campi. Non era raro, soprattutto tra coppie che disponevano di risorse economiche, che venisse stipulato un vero e proprio contratto di matrimonio, che prevedeva il conferimento di beni da entrambe le parti, secondo uno schema entrato nelle tradizioni locali. A volte, la sola dote era soggetta a contratto-inventario scritto nel quale le usanze tradizionali avevano preminenza.
La preparazione della dote coinvolgeva la ragazza fin dalla giovanissima età (cucito, preparazione abiti, ricamo ecc.): veniva, infatti, adeguatamente “allevata” e spronata dalla madre, che riteneva fondamentale che acquisisse manualità e che si sapesse opportunamente districare, dopo il matrimonio, nelle più diverse incombenze al femminile. Nel noto volume Costumanze e tradizioni del popolo bolognese, scritto nel lontano 1932, Oreste Trebbi e Gaspare Ungarelli precisavano che la tradizione nel nostro mondo rurale prevedeva obblighi a carico del fidanzato e della fidanzata seguendo modalità territorialmente abbastanza uniformi. Al fidanzato spettavano, tra l’altro, l’acquisto dell’anello nuziale, di una collana d’oro o di granato (ingranè), e delle scarpe per la futura sposa (a volte, queste ultime, anche per la suocera), il fusto del letto, la cassa per la biancheria e alcune sedie. Alla fidanzata correva l’obbligo dell’acquisto dell’armadio, del cassettone, dei materassi e delle coperte. Le spettava pure il compito di regalare una camicia da lei confezionata al futuro marito, nonché dei grembiali e fazzoletti ai membri della sua nuova famiglia. La tradizione le imponeva, inoltre, di fare lo stesso dono alle sorelle maggiori non ancora sposate o, meglio, come si diceva allora, simòuni (zitelle).
Un inventario di dote da me reperito nelle campagne di Argelato e risalente con ogni probabilità agli anni ’20 del secolo scorso conferma quanto asserito dai due studiosi. La futura sposa, Adelcisa, apportò alla sua nuova casa beni – tra arredi, biancheria, asciugamani, abbigliamento e altro – per un valore complessivo stimato di 3.692 lire. Si trattava di un matrimonio tra mezzadri, qualche anno prima della crisi economica del 1929; se usiamo delle tabelle di rivalutazione, ci rendiamo conto di trovarci di fronte ad una cifra oscillante tra i 4 e i 5 mila euro odierni, ma la somma è puramente indicativa, anche perché oggi, ad esempio, non costerebbe di certo 800- 900 euro farsi fabbricare da un artigiano un armadio e un comò, come spesero allora i genitori di Adelcisa.
Accanto agli obblighi tradizionali (coincidenti con quelli elencati da Trebbi e Ungarelli) abbiamo anche l’opportunità di conoscere ciò che possedeva una giovane donna delle nostre campagne di una novantina di anni fa, attestato da un elenco nel quale i beni sono spesso indicati con termini dialettali italianizzati. Questi furono gli oneri, da consuetudine, sostenuti dalla famiglia della giovane sposa: un armadio, un comò (in sostituzione del cassettone), due tamarazzi (materassi) pieni di penna, quattro lenzuola (forse di tela di canapa), tre coperte (una imbottita di lovatta, ossia di ovatta, una nera e la terza bianca), un copri piè, quattro federe (al fudràtti) di tela e sei di cotone, due tapeti da camera e dieci siviette (salviette). Naturalmente non mancò la camicia da uomo, che Adelcisa confezionò in seta.
Quali erano invece i principali capi d’abbigliamento che la ragazza portava con sé nella nuova casa? In primo luogo, la vesta da sposa, un paio di orecchini d’oro, due vestaglie nuove, otto camicie bianche di tela e dodici di cotone, un paletò con peliccia. La lista proseguiva con una vesta d’inverno e tre abiti completi usati, due vestaglie nuove, una maglia nuova e quattro usate, tre paia di scarpe alte e un paio basse, quattro sottane nere, sei fazzoletti da testa e dodici da naso, due busti usati e uno nuovo, un taglio da vestaglia in cotonina, due scialpe (sciarpe) per l’estate e una per l’inverno, tre paia di mutande nere e un paio bianche e, per farle ricordare il suo ruolo, due Crimbiali nuovi e uno usato.
Con tutta questa dôta iniziava così la nuova vita da maritata di Adelcisa.