LA BELLADONNA

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Il nostro viaggio tra le piante velenose dell’Appennino continua con la solanacea dai fiori rosso bruni che danno bacche rosse ed estremamente tossiche che maturando diventano nere e lucide

di Lucilla Pieralli

(pubblicato nel numero uscito nell’autunno del 2015)

Si dice che il nome le derivi dall’usanza che le donne veneziane ne facevano anticamente: una lozione in acqua distillata per un collirio che faceva dilatare le pupille per essere più seducenti, ma la pianta di Belladonna o Atropa Belladonna, la più velenosa delle piante comuni è molto probabile che debba il suo nome ad altro. Per esempio in Francia, le streghe erano chiamate “belle-femme” e l’uso dei veleni per eliminare nemici era più frequente di quello per curare le malattie. Si trattava delle donne che avevano il potere delle erbe velenose, donne temibili e pericolose. Belle donne dunque, e la bellezza in quei secoli era strettamente legata al male, alla morte, al maleficio, tanto da veder associate poi la stregoneria alla femminilità e alla bellezza seducente, facendo finire al rogo molte belle ragazze con la sola colpa di essere attraenti. Quanta strada ha fatto l’umanità, ma quanta ne deve fare ancora……

Tornando alla nostra Atropa Belladonna, già Linneo la definì così in riferimento ad una delle tre Parche, a colei che recide il filo della vita. Sì perché questa pianticella che cresce nei luoghi ombrosi dei nostri boschi, sopratutto verso le zone del Faggio è una Solanacea che ha fiori rosso bruni che diventano poi bacche rosse che maturando diventano nere e lucide, simili ad una ciliegina, ad un mirtillo, ad un ribes.  Ma una sola bacca può uccidere un bambino; figurarsi cosa può fare in dosi maggiori. I suoi principi attivi sono alcaloidi di cui la josciamina è la principale causa dell’azione sul sistema nervoso periferico che viene paralizzato in dosi minimali. In dosi maggiori la paralisi interessa anche il sistema nervoso centrale con relative conseguenze. L’atropina invece, ancora oggi viene usata in oculistica per dilatare la pupilla e permettere al medico una visita più approfondita.

Si usava anche come medicina nei crampi allo stomaco e all’intestino, come sedativo per i malati di mente e come anestetico durante le operazioni chirurgiche imbevendone spugne da far annusare al malato. I malcapitati sicuramente morivano spesso tanto per per l’intervento che per l’anestesia. Accelera i battiti cardiaci e quindi coinvolge anche il muscolo cardiaco. Insomma si tratta di un vero e proprio veleno, pericoloso e piuttosto diffuso nei nostri boschi da cui stare alla larga.

La prima regola da insegnare ai bambini quando si passeggia nei boschi dunque è quella di non ingerire mai bacche di cui non si sappia con certezza la provenienza o l’origine botanica per non incorrere in spiacevolissime situazioni. Come sempre il nostro intento in questa sede è quello di mettere le persone in condizione di riconoscere le piante pericolose per evitarle con cura, sfatando il mito che vorrebbe le erbe, tutte assolutamente innocue e benigne. La natura non è sempre buona, a volte è madre a volte matrigna.

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