Kociss e il Barone

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Icone e pionieri della città del basket: John Fultz (che ci ha appena lasciati) e Gary Schull hanno acceso le luci del derby 

testo di Marco Tarozzi – Foto Archivio Luca e Lamberto Bertozzi 

Ora che anche Kociss ci ha salutati per sempre, raggiungendo il Barone in qualche angolo della nostra memoria, ci affidiamo ai ricordi e a tutte le belle immagini che ci hanno regalato. Quelle di un basket che divideva le acque, agli inizi degli anni Settanta: di là il passato, fatto di campioni e foto in bianco e nero; di qua tutti i colori del futuro, di un’America che iniziavamo a conoscere sulle poche riviste specializzate, e che ci affascinava. John Leslie Fultz se ne è andato all’inizio dell’anno, aveva settantaquattro anni e quel sorriso disarmato sempre stampato sul viso: quello che aveva fatto impazzire una generazione, portando una filosofia di “pace e amore” a cui è sempre stato fedele con generosità. Talento della pallacanestro, da ragazzo ha perso il treno della Nba per scelta di vita, ma a Bologna è diventato un idolo della storia della Virtus, trovandone uno sull’altra sponda e divertendosi a giocare con lui una sfida esaltante. Trovando Gary Walter Schull in casa Fortitudo, e costruendo con lui il mito di Basket City. Per questo oggi la cosa più naturale è ricordarli insieme.

PIONIERI

Da una parte il Barone, dall’altra Kociss. Prima l’idea di derby era abbozzata, anche se i precedenti non mancavano, ma riguardavano Virtus e Gira, persino Moto Morini e Oare. La Fortitudo era giovane e arrembante, la Virtus aveva addosso il profumo della storia e della gloria. E in mezzo al campo, loro. Il Barone era arrivato prima, si era già scontrato con un fenomeno come Terry Driscoll al primo fugace passaggio in terra bianconera. Ma quando arrivò Kociss fu un’altra storia. Anche per il PalaDozza, che dopo anni in cui faceva il pieno solo se si parlava di boxe iniziò a riempirsi anche per la pallacanestro.

ICONICI

Gary Schull atterrò in Italia nel 1968. Anno simbolo. Aveva il ciuffo gagliardo e portava giacche con le frange, alimentando il mito del cowboy urbano. Buffo, pensando che dei due quello che aveva sangue Cherokee nelle vene era lui. Invece toccò a John Fultz, arrivato tre stagioni più tardi, essere ribattezzato Kociss. Per via dei capelli lunghi, della fascetta con cui li teneva a bada, di quel volto angelico e sfuggente che era il sogno di tante ragazze, in città. Non che Gary fosse da meno. Il mondo intorno a via San Felice, alla Furla e al palasport, era il suo regno. Tanto popolare che un giorno decise di incidere anche un 45 giri, con la sua passione per la musica country e folk: “La storia di Gary”.

NBA MANCATA

Ci provò anche Kociss, o meglio glielo consigliarono. Fu Lucio Dalla a dirgli che aveva una bella faccia da artista, da idolo delle folle. Ma la voce non era proprio a suo agio con la musica intorno. Meglio darci dentro tra i canestri. Quando scelse l’Italia, John usciva da anni felici alla Rhode Island University, dalle tre grandi sfide, veri e propri derby d’oltreoceano, con UMass di Julius Erving, da una preseason giocata con la canotta dei Lakers insieme a Jim Mc Millian e Jim Cleamons, dalle sfide con Calvin Murphy sfociate in una profonda amicizia. Era un’America da leggenda, ma John ne uscì per venire in Italia. Da Rhode Island era uscito come quinto realizzatore all-time della franchigia, con una fama di buon rimbalzista e una media di oltre venti punti a partita. Alla fine di quella rassegna estiva fu convocato da Fred Shaus, general manager dei Lakers, che gli offrì un contratto minimo, non garantito. I Lakers erano i Lakers, ma lui non la prese benissimo. Qualche giorno dopo, giocando al North South All Star Game di New York, vetrina per i migliori prospetti usciti dall’università, accanto a Mel Davis, Calvin Murphy, Claude English, in una partita segnò 34 punti e fu eletto “mvp” dell’incontro. Fu notato da Aza Nikolic, che lo portò a Varese come straniero di Coppa. Era il 1970. Un anno dopo, prese la strada di Bologna, scelto dall’avvocato Porelli per la sua Virtus.

BOLOGNA NEL DESTINO

Anche Gary Schull aveva sfiorato la Nba. Nato a Willow Grove, Pennsylvania, nel 1944, era un pivot di due metri, non estremamente atletico ma rapidissimo, che aveva messo in fila tutti i primati possibili a Florida State prima che arrivasse Dave Cowens. Settima scelta di Cincinnati nel ‘ 66, si mise a giocare in una piccola lega industriale dell’Oklahoma, e infine fu a un passo dal firmare un contratto con Seattle. Dodicimila dollari di ingaggio, contro i 13mila offerti dalla Fortitudo. Non fu una questione di soldi, però: alla Fortitudo Gary si legò strettamente a coach Beppe Lamberti, per cinque lunghe stagioni. Fu così che il Barone e Kociss, nell’anno di grazia 1971, si trovarono faccia a faccia nel piccolo Madison di piazza Azzarita. E lo riempirono, creando la leggenda di Basket City. A Bologna diventarono idoli assoluti, branditi dalle due tifoserie come totem, per alimentare una rivalità che da allora è diventata storia. I primi a trasformare una partita di basket in un evento.

GRANDI SFIDE

Fiorì in quei tempi un’aneddotica che si è tramandata negli anni. Il Barone, un pezzo di pane in realtà, che affiggeva ai muri della stanza le foto dei rivali per caricarsi prima delle partite. Le stampelle gettate dopo una sfida vissuta a bordocampo, infortunato ma presente per caricare il gruppo. Il sangue sulla canotta, diventato icona di fortitudinità. Kociss ci metteva la tecnica, valanghe di punti segnati in tempi in cui il tiro da tre non era nemmeno un’idea, rimbalzi accatastati, “doppie doppie” da far sognare il popolo bianconero.
Movimentavano anche la vita fuori dal parquet. Kociss con la sua vita da hippye, innamorato di pace e amore, con gli appartamenti pieni di amici e presunti tali a notte fonda, al punto che quando Porelli decideva di tenerlo un po’ sotto controllo, lo portava al Flamengo insieme a lui. Era anche tornato negli States a fare un nuovo provino per i Lakers dopo il primo anno bolognese: si fece fregare dalla sua voglia, quasi necessità, di vivere la vita intensamente, e l’occasione sfumò. Invece, quando trovarono il Barone svenuto in bagno, con le siringhe sul pavimento, in Fortitudo pensarono al peggio. Un Lamberti infuriato cambiò umore in fretta, quando si rese conto che anche quello era stato un segnale di volontà e tenacia: nascondere a tutti il suo stato di diabetico, per continuare a professare il suo amore per la Fortitudo.

PER SEMPRE

Tornato in America, Schull aveva rilevato l’azienda edile del padre diventando un imprenditore di successo. Se n’è andato nel 2005, lasciando solo Kociss, che invece è rimasto in Italia, ha vissuto per anni a Napoli tornando a Bologna, la “sua” Bologna, negli ultimi tempi. La sua storia l’ha scritta in una bella biografia che racconta quegli anni irripetibili, più ancora che il basket di allora. Racconta di un ragazzo che, insieme al Barone, ha inventato il mito della Città dei Canestri. E Guido Passi, regista torinese, l’ha amata al punto da farci un film, “Dear Cochise”, che lo consegna alla leggenda. Adesso tocca a noi pensarli di nuovo insieme, e ricordarli come meritano. 

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