Mauro Pasqualini era un talento del Bologna: anche O’Rey se ne accorse, e gli regalò la sua maglia dopo un’amichevole tra i rossoblù e il Santos: “Me la portai anche sotto la doccia…”
di Marzo Tarozzi – Foto archivio Bertozzi
Da qualche parte, il vecchio Edson Arantes do Nascimento doveva avere una vecchia maglia del Bologna. Sepolta tra mille altri trofei di campo, dimenticata in qualche ripostiglio, come si conviene a una divinità del pallone che non ha mica tempo di ricordarsi i dettagli della sua vita di campione. Quello che è certo è che Mauro Pasqualini quella sera dell’estate del 1971 non l’ha mai più dimenticata. E lui la maglia di Pelé la conserva ancora come una reliquia. Quando gli è capitato di ritrovarsi a qualche raduno di vecchie glorie, l’ha sempre portata con sé, custodita gelosamente in una sportina di plastica da supermercato. E lo fa ancora, se capita, perché ogni volta arriva qualcuno a chiedergli di “quella volta che il Mito…”, e lui zac, pronto, ecco che la sfodera per dimostrare che è tutto vero, che nel calcio di mezzo secolo fa esistevano anche le favole. Eccome se esistevano.
TALENTO
Mauro Pasqualini da Crevalcore era un talento vero. Classe 1947, cresciuto calcisticamente nelle giovanili del Bologna, era un giocatore di fascia velocissimo, con grande tecnica e predilezione per i cross millimetrici. Uno spettacolo vederlo giocare, una gioia per gli occhi dei tifosi e molto più di una speranza per gli allenatori. Tanto che Oronzo Pugliese, il “mago di Turi”, timoniere pittoresco ma molto più concreto di quanto possa pensare chi ne ha oggi un ricordo sbiadito, al futuro di quel ragazzo credeva davvero. Lo aveva fatto debuttare in prima squadra a ventun anni, nell’ottobre 1968, e mica in una partita qualsiasi: a Torino, contro la Juventus. E il ragazzo non aveva sfigurato, anzi; al punto che il tecnico si era convinto di avere per le mani un gioiellino, e in quella stagione 1968-69 lo aveva gettato nella mischia altre otto volte. Poi, come si usava in quei tempi, il Bologna lo aveva mandato a “farsi le ossa” in Toscana, prima all’Arezzo e poi alla Lucchese, tra Serie B e C. Ma senza mai privarsene, e infatti proprio in quell’estate del ’71 Pasqualini era tornato a Bologna, alla corte di Mondino Fabbri.
OLTREOCEANO
Giusto in tempo per fare le valigie e partire per la spedizione rossoblù negli Stati Uniti: una serie di amichevoli di lusso, roba indimenticabile per un ventiquattrenne che non aveva mai attraversato l’oceano. “Ricordo tutto. Eravamo alloggiati allo Sheraton, a due passi dall’Empire State Building. Ricordo anche il piano della stanza, il dodicesimo, perché “twelve” fu una delle prime parole inglesi che mandai a memoria, così non rischiavo di perdermi tra quei corridoi. Prima delle partite venivano a prenderci e ci portavano all’aeroporto, destinazione Toronto, Montreal, le città dove erano in programma le amichevoli”.
ALLA PARI
Tre sfide col leggendario Santos di Pelè. E non solo, perché quella squadra era imbottita di campioni. Tra quelli che un anno prima, a Città del Messico, avevano conquistato il Mondiale con la Nazionale brasiliana, battendo proprio l’Italia, c’erano Carlos Alberto, Clodoaldo, Edu, Rildo, per dire delle perle più sfavillanti. Come da contratto, il Bologna affrontò il Santos in tre occasioni, giocando alla pari: a Toronto perse 2-1, a Jersey City strappò un 1-1 e a Montreal, nell’ultima sfida, finì 1-0 per la truppa di O’Rey, che segnò proprio il gol della vittoria. E fu quel giorno, proprio uscendo dal campo a fine partita, che Mauro Pasqualini visse il momento più intenso della sua carriera. “Era dalla prima partita che tutti chiedevano a Pelé di poter avere la sua maglia. Ci avevano provato Fogli, Perani, lo stesso Fabbri. Niente, lui se la teneva stretta. Così, fui sorpreso quando alla fine di quell’incontro, ancora in mezzo al campo, lui mi cercò con lo sguardo e mi chiamò. Mi guardai intorno, non c’erano dubbi: chiamava proprio me».
INSEPARABILE
Quando la racconta, negli occhi di Mauro traspare ancora l’emozione, come se fossero passati pochi minuti e non cinquantadue anni. «Andai verso di lui con un certo timore reverenziale. Lui si sfilò la maglia e me la consegnò. Mi venne spontaneo domandargli “Why?”, del resto era una delle poche altre parole inglesi che ero riuscito ad imparare. Allora lui me lo spiegò, mescolando inglese, portoghese e un po’ di italiano. Insomma, fece di tutto per farsi capire: mi disse che gli piaceva come giocavo. Amava i giocatori un po’ dribblomani, quelli come Edu. Io ero proprio così, correvo velocissimo sulla fascia, saltavo l’uomo e crossavo. Mi chiese anche se mi sarebbe piaciuto andare a giocare in Brasile, e figurarsi io, che avevo ventitré anni e una bella dose di incoscienza. Eccome se mi piacerebbe, gli dissi. Però quando lo raccontai al dottor Dalmastri, il medico del Bologna, lui si affrettò a gettare acqua sul fuoco: “Ma sei matto? Che ci vai a fare in una squadra brasiliana, il tuo avvenire è in Italia”. Non so se era stata una boutade, del resto non ebbi nemmeno il tempo di approfondire. Ringraziai, strinsi la maglia tra le mani e corsi felice negli spogliatoi. Non riuscivo a separarmene, ricordo che me la portai dieto fin sotto la doccia. Mi sembrava di aver appena superato un esame di laurea…»
MALASORTE
Doveva essere la consacrazione, ed in effetti Fabbri non lo aveva portato in America per caso. Dopo tutti quei pellegrinaggi nelle serie minori, per Pasqualini era arrivato il momento di svoltare. Al Bologna era tornato con molte assicurazioni sul futuro, era nella rosa per la stagione 1971-72 e lo stesso tecnico rossoblù, complimentandosi dopo una partita di Coppa Italia contro la Reggiana, quasi si scusò per non averlo tenuto nella giusta considerazione, promettendo che da lì in avanti le cose sarebbero andate diversamente. Invece, quella partita col Santos fu il canto del cigno. “Il mio calvario iniziò il 14 ottobre del ’71, giocavamo un’amichevole a San Marino sotto una pioggia torrenziale. A due minuti dalla fine entrai in area e finii schiacciato tra due difensori. Non fu nemmeno colpa loro, il campo era quasi impraticabile. Mi portarono fuori in barella e il giorno dopo, a Villa Erbosa, il professor Bartolini emise la sentenza: lacerazione totale del legamento collaterale del ginocchio destro”.
CAPOLINEA
Fine dei sogni e brusco risveglio. L’anno dopo, ripresosi dall’infortunio, Mauro finì al Cesena di Gigi Radice, quello della storica promozione in Serie A a cui contribuì con diciotto presenze. Poi finì al Monza in C, a confezionare assist per Braida. Altra stagione memorabile, l’interessamento del Napoli di Savoldi, ma subito un secondo infortunio, ancora più grave, allo stesso ginocchio, e l’operazione a Parigi nella clinica del professor Trillat. A ventotto anni, il ragazzo che sembrava baciato dal talento era arrivato al capolinea. Carriera troncata.
RICORDI
Oggi Mauro ha settantasei anni e due baffoni che lo fanno sembrare quasi truce, nascondendo un carattere solare e allegro. Anni fa, lavorando alle giovanili dell’Arezzo, ha praticamente scoperto Giaccherini. Da anni vive a Foiano della Chiana, e ancora oggi segue i ragazzi delle giovanili del Rapolano. Ogni tanto torna per una rimpatriata coi vecchi compagni. A Portonovo ha giocato amichevoli con le vecchie glorie rossoblù nella terra di Giacomino Bulgarelli, che lo trattava come un figlio talentuoso. Colomba, Poli, Fio Zanotti giurano che quando va in campo sembra ancora un ragazzino. La maglia di Pelé l’ha messa due volte all’asta per beneficenza, ha raccolto cifre importanti per una bimba malata nel suo paese e poi per i terremotati della sua Crevalcore, ma chi se l’è accaparrata alla fine ha deciso di lasciargliela. Perché nessuno più di lui se l’è meritata. Lo disse Pelé, quel giorno a Montreal: chi potrebbe mai confutare il parere di una leggenda?