A fine ‘700 a Bologna si parlò a lungo della morte di Caterina Boccabadati di cui fu accusato, e prosciolto, il senatore e più volte gonfaloniere di giustizia, Francesco Albergati Capacelli
di Serena Bersani
(articolo pubblicato nel numero uscito nell’autunno 2018)
La sera del 18 agosto 1786 un tragico evento sconvolse l’aristocrazia bolognese, facendo a lungo parlare di sé e lasciando che, malgrado una sentenza di assoluzione, l’ombra del dubbio si allungasse sul rappresentante di una delle più nobili famiglie cittadine, il cui splendore è tutt’oggi rappresentato dai due magnifici palazzi di città e di campagna, uno nel centro di Bologna e l’altro a Zola Predosa. E fu proprio in quest’ultima dimora, considerata una delle più belle ville del barocco europeo, che si consumò il fattaccio.
Palazzo Albergati di Zola apparteneva, così come l’omonima dimora cittadina di via Saragozza, al marchese Francesco Albergati Capacelli, senatore e più volte gonfaloniere di giustizia, ma più noto per le velleità artistiche in campo teatrale, che ne avevano fatto un prolifico autore di commedie e anche un interprete dilettante, sul palcoscenico così come nella vita. La vittima di quella tragica serata d’agosto era la seconda moglie dell’Albergati, Caterina Boccabadati, detta Cattina, un’ex attrice veneziana all’epoca trentottenne, mentre il marchese ne aveva venti di più. Albergati non si era fatto mancare amori tumultuosi e continuerà a non farsene mancare nemmeno dopo la tragica scomparsa di Cattina. I due si erano sposati intorno al 1772, dopo diversi anni di concubinaggio e due figli, benché da oltre due decenni il marchese avesse ottenuto lo scioglimento del primo matrimonio grazie all’intercessione dell’ex cardinale di Bologna Prospero Lambertini, che allora sedeva sul soglio di Pietro con il nome di papa Benedetto XIV. La prima moglie, la contessina Teresa Orsi, sposata per volere delle rispettive famiglie quando i due erano giovanissimi, era stata ripudiata e costretta perciò a ritirarsi in convento. L’aspetto stupefacente, che lasciava intendere da una parte su quali entrature potesse contare il marchese in città e dall’altra quali fossero le sue abilità attoriali, riguarda le motivazioni con cui l’Albergati si rivolse al Tribunale Ecclesiastico per ottenere la nullità delle nozze, e in forza delle quali lo scioglimento del matrimonio gli venne accordato. Di quella vicenda, dai risvolti boccacceschi, avvenuta nel 1751, si parlava ancora nel 1773 quando il celebre avventuriero e letterato Giacomo Casanova soggiornò per diversi mesi a Bologna. Il veneziano, che era attirato dal personaggio dell’Albergati più per curiosità pettegola che per le modeste doti intellettuali del nobiluomo, racconta nelle sue Memorie: «Il marchese era famoso anche per essere riuscito a ottenere l’annullamento del suo matrimonio con una nobildonna che non poteva più sopportare per sposare una ballerina (in realtà Cettina era un’attrice, ndr) da cui aveva già avuto due figli. Ma la cosa curiosa è che egli, nonostante quest’ultimo particolare, era riuscito a far dichiarare nullo il suo matrimonio con la prima moglie per impotenza, difetto che aveva coraggiosamente dimostrato sottoponendosi alla barbara e ridicola perizia che è tuttora richiesta in casi simili in quasi tutta Italia». Ben quattro giudici avevano sottoposto a uno scrupoloso quanto imbarazzante esame l’Albergati che, nella circostanza, aveva davvero saputo mettere in mostra grandi capacità attoriali rimanendo impassibile a ogni sollecitazione.
Ma con il trascorrere degli anni anche il matrimonio con Caterina Boccabadati era giunto al capolinea e non ci volle molto a trasformare il clima da commedia in quello da tragedia. I due coniugi litigavano sempre più spesso, come testimoniarono i famigliari e i domestici al processo. In particolare la sera del 18 agosto 1786, complice il caldo e le finestre aperte, il tono delle voci fu udito alzarsi più del solito, seguito da un certo trambusto. Ad accendere il litigio un motivo pretestuoso, come sempre accade in questi casi: la marchesa si era infuriata perché alla festa data per Ferragosto, tre giorni prima, il loro primogenito mancava dei guanti indispensabili per il ballo e questi non erano ancora stati recapitati malgrado le richieste al maggiordomo. Non è chiaro quali fossero le colpe del marchese in questa vicenda, sta di fatto che a un certo punto si udì una forte scampanellata provenire dalla camera della donna, come se volesse chiedere aiuto.
La scena che si presentò agli occhi dei domestici quando entrarono forniva molte suggestioni di colpevolezza, ma nessuna prova: la marchesa giaceva a terra con il petto dilaniato da colpi di coltello e accanto a lei stava il marito con gli abiti sporchi di sangue. La versione data dall’Albergati nell’immediatezza venne ripetuta anche in tribunale durante il processo che lo vide imputato per l’omicidio della moglie: la donna aveva un temperamento rabbioso e incline ai gesti autolesionistici, per cui si sarebbe inferta due pugnalate al cuore e poi avrebbe avuto ancora la forza di correre al suo scrittoio, prelevare una lettera e gettarla nel gabinetto. L’esistenza di quella lettera non fu mai provata. Nessuno, infatti, si premurò di recuperarla, malgrado i gabinetti dell’epoca non fossero collegati a un impianto fognario ma venissero svuotati manualmente. Il marchese finì alla sbarra ma il processo, che avrebbe potuto essere definito un femminicidio dell’età dei Lumi, finì in una bolla di sapone. Vuoi per la notorietà e l’importanza dell’imputato, vuoi per l’abilità di due dei migliori avvocati sulla piazza – Luigi Nicoli e Ignazio Magnani – Albergati venne infine assolto e la corte sentenziò essersi trattato di un suicidio. Ad avvalorare ciò la testimonianza di alcuni domestici, che riferirono del carattere rabbioso della marchesa e di suoi passati gesti autolesionistici o forse soltanto dimostrativi: una volta aveva cercato di masticare un bicchiere e un’altra di colpirsi con un paio di forbici.
Il vedovo si consolò presto, sposandosi a 61 anni con una ballerina che ne aveva appena 25, Teresa Checchi Zampieri, da lui stesso definita «la più bella giovane che sia in Bologna». La vicenda giudiziaria però lasciò un’ombra indelebile sulla reputazione del nobile commediografo. Se ne parlò a lungo in tutta Italia e non solo nei salotti. Oltre quarant’anni dopo il fatto, la tragedia degli infelici coniugi Albergati diede origine anche a un dramma, significativamente intitolato Il sospetto funesto. Delle commedie scritte dall’Albergati e rappresentate nella sontuosa villa di campagna dove aveva fatto costruire, a questo scopo, un teatro da trecento posti restano invece a mala pena i titoli. Una di queste, Convulsioni, che dava un’immagine stereotipata della donna nevrastenica così come venne dipinta durante il processo la vittima, dimostra come venisse considerato il genere femminile. Il suo tentativo di emulare Goldoni fallì però miseramente. Sarà perché, più che talento, possedeva «una buona dose di teatromania», come racconta Casanova riportando un dialogo sul personaggio bolognese avuto con Voltaire una ventina di anni prima della morte di Cettina. Il veneziano, feroce, descrive il marchese come «un bravo attore solo quando recita le proprie opere», che «sembra di bell’aspetto solo sulla scena perché in realtà ha un viso inespressivo», autore di commedie in prosa «neppure molto divertenti». Un narciso, insomma, che «si compiace di ascoltare se stesso e non sa essere stringato», favorito dall’avere come pubblico la nobiltà bolognese adorante e dal gusto letterario dozzinale, che fischierebbe i suoi lavori se solo li capisse e sul quale il tempo non poteva che far calare il sipario.