IL MAGICO ’68 DI GIORDANO TURRINI

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Argento olimpico, oro ai Mondiali: storia di un anno speciale e di un campione che aveva la pista e il ciclismo nell’anima.

di Marco Tarozzi
(Articolo pubblicato sul numero di Nelle Valli Bolognesi uscito primavera 2019)

Pensare che ha rischiato di perdere l’appuntamento con la gloria, Giordano Turrini. Era il 1962, lui aveva chiuso la sua prima stagione da dilettante e cominciava a guardarsi intorno. Il mondo oltre il ciclismo, l’idea di trovarsi un lavoro. Quelli della federazione ci restarono di sasso: lo avevano chiamato per le visite mediche, per selezionare i probabili olimpici di Tokio ’64, e lui fece presente che forse puntavano sull’uomo sbagliato, perché i sacrifici erano tanti e bisognava pensare a trovarsi un mestiere. Uno così non andava perduto, si dissero allarmati, e gli proposero in fretta qualcosa di concreto. Il magico mondo della pista e dei circuiti.

“Avevo due opzioni, Padova o Milano. All’inizio scelsi Padova, più vicina a casa. Rimasi una stagione alla Moccia, ma fu solo un appuntamento rimandato col destino. Nel ’63 ero a Milano, alla Genova Overlay, la società di Porta Genova. E in quella città, per fare il mio mestiere, sarei rimasto un bel po’ di tempo. Per correre su pista, a quei tempi dovevi trasferirti per forza lassù. Me lo spiegò bene Bruno Loatti, che quando ancora correvo alla Ravonese era tecnico della pista al comitato regionale. Fossi in te, mi diceva, farei l’impossibile per andare a Milano, è il centro del ciclismo mondiale. Aveva ragione”.

Undici lunghi anni lontano da Bologna. E da una famiglia che intanto cresceva. Il matrimonio, i bambini che diventavano grandi a duecento chilometri di distanza. Il ritorno a casa soltanto nel ’74. “Mio figlio aveva già otto anni, mia figlia sette. Ho cercato di essere un buon padre per loro, ma quegli anni di crescita me li sono persi, ed è il rammarico più grande”.

Ma Loatti, un secondo padre per Giordano, aveva indicato la via. Dovresti cominciare dalla velocità, diceva, per arrivare un giorno a correre le “sei giorni”, che fanno vivere bene anche economicamente. Aveva visto nel ragazzo di Anzola dell’Emilia qualcosa di speciale. Non la velocità pura di Maspes, non i guizzi di Gaiardoni. Giordano Turrini aveva grinta da vendere, ecco cosa poteva portarlo tra i migliori. In quei primi anni Sessanta, un ragazzo di talento avrebbe potuto vivere facendo soltanto il ciclista. Non successe a Giordano, ma solo perché fu lui a deciderlo. Aveva valori solidi dentro, e i giusti maestri intorno.

A Corsico mi offrivano vitto, alloggio e una vita da atleta. Nient’altro da fare che allenarmi e gareggiare. A Porta Genova mi davano un lavoro, e una camera per dormire nel cinema del proprietario, Franco Pellegatta. Muro a muro con la sala proiezioni, non so più quanti dialoghi di film ho imparato a memoria. Scelsi la Genova Overlay e qualcuno si stupì. Ma a me lavorare piaceva, mi teneva a contatto col mondo vero, perché il ciclismo mi sembrava una specie di sogno. Da ragazzo avevo fatto di tutto: idraulico, elettricista, imbianchino, falegname. A Milano lavoravo in una ditta di ricambi auto. Stavo dieci ore in ufficio e poi andavo ad allenarmi. Fu proprio il signor Pellegatta, il proprietario, a chiamarmi un giorno. Mi disse: parliamone, sei qui per correre o per lavorare? Insistette per ridurmi le ore lavorative, e a mezzogiorno mi portava a mangiare a casa sua. Per nove anni la sua è stata una seconda famiglia per me, e mi ha aiutato a lenire la nostalgia di casa”.

Giordano-Turrini-contro-Pierre-Trentin-in-semifinale-alle-Olimpiadi – Foto Bertozzi

Troppo giovane per l’avventura di Tokio, Turrini era maturato al punto giusto quattro anni dopo. E il biglietto per le Olimpiadi messicane del ’68 non gli sfuggì, né tutto quello che portarono in termini di gloria.

“In Messico ero andato una prima volta dopo il titolo italiano di velocità del ’65. Furono quaranta giorni fantastici, a una kermesse battei per la prima volta Daniel Morelon, il francese campione del mondo. Tornai nel ’67 e feci ancora piazza pulita, battendo i russi e i francesi, Morelon e Trentin su tutti. L’anno olimpico fu durissimo: un mese di collegiale a Roma, e venti giorni dopo l’Olimpiade ci attendeva anche il Mondiale a Montevideo. Quando arrivai a Città del Messico sentii che la condizione era quella giusta. L’alta quota mi fece un bell’effetto. Il percorso verso la finale fu lineare: entrai nei migliori quattro battendo l’olandese Loevesijn con un fotofinish dopo due giri di volata. Dopo la semifinale vinta con Trentin ero così tranquillo che mi addormentai sul lettino dei massaggi. Finale con Morelon: nella prima prova mi ostacolò, non sto più a chiedermi se uno corretto come lui lo avesse fatto apposta, fatto sta che la giuria ci pensò su un quarto d’ora e gli confermò la vittoria. E lì persi l’oro. Però quella delle Olimpiadi resta la medaglia che amo di più. Perché in Messico io non ho perso l’Olimpiade, ma ho conquistato uno splendido secondo posto dietro a un fuoriclasse. Uno perde se sbaglia, io quel giorno avevo dato il massimo”.

Per festeggiare ancora, però, Giordano dovette attendere una ventina di giorni, e il Mondiale in Uruguay. Perché a Città del Messico non toccava a lui salire sul tandem…

“Verzini e Gorzato erano la coppia designata. Logico, erano i campioni del mondo in carica. Alla vigilia della partenza, durante il collegiale, venne a vederci il presidente federale Adriano Rodoni. Si improvvisò una volata dimostrativa, e contro di loro misero me e Gorini, che avevamo vinto un bronzo mondiale nel ’66 e da allora non eravamo più saliti in tandem. Però avevamo un feeling incredibile. Morale: stracciammo i campioni e creammo parecchi problemi ai dirigenti federali. Ma non rimescolammo le carte: in Messico corse chi doveva correre. Noi ci rifacemmo a Montevideo, venti giorni dopo. Mi dissero che toccava a me, e di scegliermi il compagno. Ovviamente scelsi Walter Gorini. E diventammo campioni del mondo”.

Dopo la festa, la vita nuova. Tra i professionisti, per dieci lunghi anni. Una collezione di maglie colorate: Sellière-Cima, Dreher, Brooklyn, Sanson, Lambrusco Giacobazzi, Zonca. E compagni di squadra di valore, che in gran parte sono diventati vecchi amici: Beghetto, Bianchetto, Roncaglia. Diventando anche uno dei pionieri del keirin, che si affacciava al ciclismo continentale.

“Ho fatto diciannove mondiali, e per uno come me non è poco. Non ero baciato dal talento, ma con quelli più forti di me rendevo al massimo. Questione di grinta, tenacia, spirito combattivo. Dopo, ho fatto il tecnico regionale. E ho lavorato in Comune, all’Assessorato allo Sport, fino alla pensione. Quando mi hanno proposto un posto da tecnico nazionale ho detto: no, grazie, alla famiglia ho portato via anche troppo tempo. Il mondo l’ho conosciuto grazie alla bici, ho un amico in Australia che avrebbe voluto laggiù per sempre me e la mia famiglia. Della bici sono ancora innamorato, ed è per questo che non la tocco più. Si rischia di esagerare, e invece io questo amore non voglio perderlo”.

GIORDANO TURRINI
GIORDANO TURRINI è nato ad Anzola dell’Emilia il 28 marzo 1942. Ha iniziato a correre in bici a sedici anni, con la Ravonese. Specialista della pista, è stato campione del mondo in tandem con Walter Gorini a Montevideo nel 1968, e argento olimpico della velocità a Città del Messico nello stesso anno. Nella Velocità professionisti ha all’attivo 6 titoli europei, 9 titoli italiani, 8 tricolori indoor.
Tra il1965 e il 1976 ha partecipato a venti edizioni dei campionati mondiali, vincendo un oro e un bronzo nella velocità, tre argenti e due bronzi nella Velocità. Tra i dilettanti, tre titoli italiani nel tandem e due nella Velocità.
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