IL RACCONTO DI FAUSTO CARPANI TRA LA VIA EMILA E IL WEST
I Prati di Caprara, antico possedimento dell’omonima famiglia senatoria bolognese (Palazzo Caprara è oggi la Prefettura), sono rimasti nel ricordo di tanti bolognesi che vi andavano a giocare a bocce, al tamburello o a ballare in quella che fu la Bocciofila Centrale. Dieci curatissimi “prè da bòc’” (prati da bocce), come li chiamavano un tempo, immersi nel verde, con tanto di bar e comode panchine per gli spettatori. C’era anche una pista da ballo, dove ricordo di aver visto all’opera il celebre Trio Filuzziano di Leonildo Marcheselli. Addirittura fu costruito un grande palcoscenico all’aperto, tutto di legno, dove si esibirono cantanti all’epoca famosi (Corrado Loiacono, Nilla Pizzi, Natalino Otto). Poi tutto fu distrutto per far posto, oltre alle nostre già esistenti, a delle altre case di servizio dell’Esercito, che avrebbero potuto essere costruite tranquillamente in un’altra porzione dei Prati ma che invece furono fatte proprio lì dove c’era la Bocciofila. A me è sempre rimasto il sospetto che si sia voluto togliere di mezzo un nido di “sovversivi”, come erano chiamati gli iscritti al PCI.
Nei Prati di Caprara ebbi la fortuna di trascorrervi un’infanzia spensierata e libera, insieme a una frotta di cinni e cinne che vi sono diventati uomini e donne. Abitandovi proprio in mezzo, i nostri giochi ebbero sempre per teatro quella per noi sconfinata distesa verde, solo parzialmente coltivata a grano, che di volta in volta diventava la jungla, il west o un campo di battaglia dove incrociavamo le nostre spade di legno. Lo stesso Ospedale Maggiore, già edificato fino all’ultimo piano ma ancora grezzo, divenne luogo di avventure. Seppur privo di qualsiasi protezione e custodito da un unico guardiano, vi abbiamo scorrazzato impunemente a lungo, fino al tetto, senza che mai si sia verificato il benché minimo incidente.
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I motivi per essere riconoscenti al grande fotografo Walter Breveglieri sono tanti e il primo lo trovo subito nella foto aerea dell’allora nuovo Ospedale Maggiore ai Prati di Caprara. Questa foto ha per me il valore inestimabile di un documento sconosciuto, emerso per miracolo dal suo sterminato archivio, ereditato dall’amico Roberto Mugavero, dinamico creatore della Casa Editrice Minerva. Quello scatto racchiude il mio mondo di ragazzo, la casa nella quale la mia famiglia abitava da pochi anni e che ancora oggi è il mio nido, pieno di ricordi vivi. In quello che fu il campo di gara per il gioco del tamburello e che per noi ragazzi era il terreno di scontro per interminabili partite a pallone, mi pare di distinguere dei puntini chiari: siamo noi cinni, probabilmente incantati a guardare l’aereo che volava basso per permettere a Walter di scattare le sue foto.
Sulla destra in basso si vedono i capannoni del magazzino della direzione di artiglieria, demoliti in anni abbastanza recenti. Di altri restavano i ruderi anneriti dopo i bombardamenti dell’ultima guerra. Un capannone fu particolarmente caro a noi ragazzi ed è quello lungo, più prossimo all’Ospedale. Lì dentro vi erano ammassati elmi della Grande Guerra, fucili mitragliatori debitamente messi fuori uso sotto un pressa, paletti per i reticolati e tanto altro materiale metallico. Scoprimmo che un vecchio condotto fognario partiva dal campo di tamburello, passava sotto al reticolato e sbucava all’interno del capannone. All’epoca – siamo intorno al 1955 – tutta l’area era ancora sorvegliata da soldati armati che, senza troppa convinzione, facevano la guardia. Era per noi motivo d’orgoglio, quasi una prova di coraggio, infilarci nello stretto cunicolo, emergere all’interno del capannone per poi tornare indietro per la stessa strada, naturalmente dopo aver prelevato qualcosa di metallico. In questo modo portammo via quintali di roba che venne regolarmente rivenduta al sulfanèr (robivecchi).
Un altro sistema per raggranellare qualche soldo: durante la costruzione dell’Ospedale Maggiore, nei giorni di festa ero solito munirmi di un bidone e una calamita legata a uno spago. Così attrezzato compivo il periplo del cantiere raccogliendo i chiodi da carpentiere che erano caduti durante lo smontaggio delle impalcature. Ne raccolsi bidoni e bidoni che, insieme ad altri rottami metallici tra i quali i paletti della recinzione della zona militare e spezzoni di tondino di ferro per armare il cemento. In poco più di un anno riuscii a racimolare il denaro sufficiente per comprarmi la bicicletta (19.500 lire, altri tempi…).
Alle spalle dell’Ospedale, con l’ingresso da via Prati di Caprara, vi era il P.V.E.I. (Parco Veicoli Efficienti ed Inefficienti) dell’Esercito: carri armati, autoblindo e cannoni ormai inservibili.
Non eravamo solo noi i frequentatori dei Prati anche se, risiedendovi, ce ne sentivamo un po’ i padroni: da altre parti della città arrivavano gruppi di ragazzi, in particolare dalle case popolari ubicate nella zona Pier Crescenzi – Malvasia, con i quali ingaggiavamo estenuanti partite a pallone. Loro capo incontrastato era Peppo, che arrivava in sella a un Rumi abbigliato come Marlon Brando nel Selvaggio. Aveva più anni di noi e si atteggiava a duro, come si conviene ad un carismatico capo banda. In realtà aveva un cuore gentile e non lo vidi mai compiere azioni disdicevoli. Era un innocente e simpatico Americano a Bologna del quale, da adulto, divenni collega fino al giorno in cui, in sella alla inseparabile moto, perse la vita in un incidente mentre svolgeva il suo lavoro di postino a Borgo Panigale.
Stamani ho fatto il mio quotidiano giro in bici e rientrando ho percorso la ciclabile di via del Chiù, che si snoda lungo il confine dei Prati di Caprara, rappresentato dal corso del torrente Ravone. Mi sono fermato a guardare l’inestricabile trionfo vegetale che sono ora i Prati: un’oasi nella quale vivono e prosperano aironi, scoiattoli, daini, fagiani… Il tutto praticamente in città.
Oggi, ho udito in mezzo a quel verde delle voci e il pianto di un neonato.
Non so cosa si stia preparando per questo eden dietro casa, ma sento che qualcosa cambierà.
Dida alla foto: Archivio Walter Breveglieri – Casa Editrice Minerva