Dal Ponte della Bionda 
al Corno alle Scale con Fausto Carpani

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Un viaggio immaginario da Bologna alla vetta dell’Appennino tra personaggi, storie e miti della Valle del Reno 

di Fausto Carpani

– Papà, perchè il Ponte si chiama “della Bionda”?

L’eventualità che questa domanda mi venisse posta mi aveva insinuato una sottile inquietudine fin dal momento in cui avevo avviato il motore. Quella che l’aveva preceduta si riferiva, invece, alla generale tendenza di sostituire i semafori con le rotatorie.

Per rendere il traffico più veloce e senza inutili fermate… – era stata la mia risposta. Peccato che in quel momento eravamo incastrati in un terrificante ingorgo proprio nel bel mezzo della rotatoria Gagarin-Marco Polo…

Ma torniamo al ponte. Come si fa – dico io – a spiegare a una bimbetta di otto anni che la bionda in questione esercitava lì, sul Navile, il mestiere più antico del mondo?

 – Ma, la bionda era la padrona del ponte? – mi incalzò.

Si rendeva necessario ammantare il tutto di una buona dose di storia. Così mi imbarcai in una affabulazione sull’antica funzione del canale Navile che, come una liquida autostrada, vide galleggiare sulle sue acque innumeri barconi che recarono in città nel corso dei secoli le merci più varie e, talvolta, illustri personaggi. Il pezzo forte fu rappresentato dalla battaglia del Primaro, che vide una flottiglia bolognese scontrarsi in armi nientemeno che con la Serenissima, riuscendone vincitrice. Ma tutto questo non bastò a placare la sete di conoscenza dell’infante che, recepite le nozioni di cui avevo fatto sfoggio, mise caparbiamente a segno l’ultimo affondo.

 – Ma perchè il ponte si chiama così?

 – Perchè… i miei pochi e arrugginiti neuroni erano alla disperata ricerca di una ragione plausibile …perchè c’era una signora bionda che vendeva… i pop-corn ai barcaioli di passaggio!

Pop-corn? Ma come poteva essermi venuta in mente una cosa del genere? Ah, sì: la sera precedente eravamo andati alla multisala a vedere Harry Potter, il che significa che l’ingresso al cinema era stato preceduto dall’acquisto di un tinazzo di fumanti chicchi di frumentone abbrustoliti. Pur se involontaria, fu una buona mossa perchè mi dette agio di spiegare che i pop-corn non sono un’invenzione americana: li preparava anche nonna Letizia in vatta ala fûga, ma allora li chiamavamo i galétt e per noi cínni era una festa. Ecco quindi che diventava plausibilissima l’ipotesi che la signora biondochiomata gestisse un piccolo commercio di galétt, brustulén, bagîgi e sugabachétt. Assestato così il primo punto in favore dell’orgoglio italico (e rivestito di rispettabilità il mestiere della bionda), attesi di arrivare a Pontecchio per il secondo punto.

 – Perchè ci fermiamo? – la domanda giunse puntale mentre parcheggiavo davanti a Villa Grifone.

 – Voglio mostrarti una cosa… – risposi mentre ci incamminavamo verso il mausoleo Marconiano – Se oggi usiamo il cellulare e il cordless; se guardiamo la televisione e ascoltiamo la radio; se l’uomo è andato sulla Luna… lo dobbiamo a un signore che è sepolto lì dentro: Guglielmo Marconi!

– Il padrone dell’aeroporto? – fu il commento filiale…

Trattenendo un sorriso, spiegai che lo scalo aereo cittadino è stato intitolato al grande inventore in virtù dei suoi meriti scientifici; come del resto anche una scuola, un vecchio cinema ora demolito e una grande strada del centro (che la nonna si ostina ancora a chiamare “via Roma”).

Anche il prossimo paese che attraverseremo è intitolato a lui: si chiama Sasso Marconi!

 – Perchè “Sasso”?

 – Lo vedremo tra un po’…

Infatti qualche chilometro dopo la rupe che incombe sulla Porrettana mi dette agio di farle notare il sasso che ha dato il nome al paese, ottenendo a commento un disincantato:

 – Invece che un sasso, a me pare un montagna…

Come darle torto? Avrei dovuto addentrarmi in una disquisizione sull’uso della parola “sasso” nella toponomastica di montagna, citando magari il Sassolungo, il Sass Maor, i Sassi di Rocca Malatina e magari aggiungere che Sasso Marconi, in dialetto, è “al Sâse bôna lé.

Poco oltre la Rupe, breve sosta per far metano. Il nuovo distributore di gas naturale per trazione, sorto tra la Funtèna e al Paganén, rappresenta una specie di “hic sunt leones” energetico: oltre solo benzina e gasolio, fino a Porretta. Ma d’altra parte, quando optai per un mezzo economico ed ecologico, ben sapevo che avrei dovuto rivedere le mie abitudini in materia di approvvigionamento di carburante. A fronte di un prezzo contenuto si aveva (oggi non più): minore autonomia, un quasi impercettibile calo di rendimento del motore e, soprattutto, l’ubicazione decentrata dei pochi distributori. Ma… volete mettere il piacere un po’ perverso di circolare quando la maggior parte degli altri automobilisti sono obbligati a lasciare l’auto in garage? In quei giorni provo quasi il desiderio di essere fermato dai pulismani… che invece non sono mai in giro! (mo, in duvv stèni arpiatè i puliśmàn ed Bulaggna?).

 – La-ma di Re-no – sillabò – Facevano le spade, qui?

Effettivamente la parola “lama” può trarre in inganno: molti bolognesi vivono in via Lame convinti che un tempo quella strada fosse tutto un baluginìo di armi bianche appena uscite dalla forgia, ma così non è. Posto che a Bologna esisteva una strada vocata a quel tipo di produzione bellica – la scomparsa via Spaderie – diedi fondo alla mia erudizione spiegando al frutto dei miei poco magnanimi lombi che per “lama” (meglio ancora sarebbe dire “lamma”) si intende “un luogo acquitrinoso in prossimità di un fiume” (Devoto-Oli).

Il viaggio proseguì tranquillo, nel senso che il cervello della giovane, impegnato in speculazioni linguistiche, mi concesse una tregua fino alla località successiva, sul cui nome è d’obbligo una riflessione. Che l’antica Claterna sia diventata Quaderna (la Quadêrna per gli indigeni) è abbastanza scontato. Così come è ovvio che Bononia si sia evoluta in Bologna, Butrium in Budrio (Bûdri) e viandare. Ma in che modo l’etrusca Misa si sia evoluta in Marzabotto, resta un rompicapo anche per i più attenti studiosi della materia.

Mar-za-bot-to… Marzabotto… che fatto nome! – e non aggiunse altro. Interpretai il silenzio che seguì come il segnale di una pietosa tregua concessa alle mie modeste nozioni,  esentandomi così  dall’avventurarmi in funamboliche dissertazioni toponomastiche. Diversamente sarei stato costretto a tirare in ballo gli antichi signori del luogo – i conti di Panico – aggiungendo che il loro nome non ha alcun riferimento alla paura (anche se furono sempre spietati con tutti e nemici irriducibili di Bologna in particolare), bensì al panìco, una graminacea da cui prese il nome anche Borgo Panigale. Arrivare a “Marzabotto” partendo da “Panico” sarebbe stata dura!

Sfiorammo la zona archeologica senza fare nessun riferimento agli antichi abitatori, ma solo riflettendo tra me sul nome del nobiluomo che ebbe il merito di dare impulso agli scavi: Pompeo Aria. Ma, dico io, si può metter nome “Pompeo” a un bambinello nato in seno a una famiglia che di cognome fa “Aria”? Provate solo ad immaginare a quali lazzi sarebbe stato sottoposto ai nostri giorni… (“Cínno, dâm bän un culpadén al gåmm dla mî biziclatta”)

Poco oltre Pian di Venola inizia il tormentone dei limiti di velocità. Dovete sapere che, quando siamo in auto, il ruolo di navigatore viene svolto solitamente dalla madre ma, in sua assenza, il frutto del nostro amore non disdegna sostituirsi alla genitrice. Eccola quindi imitare la voce del satellitare del nonno: “50”… “30”… “10”… “5”. Sì, cinque, che è la velocità di una persona che cammina di buon passo! Oltre quel limite assurdo, ma presente sulla Porrettana, vi è solo lo stop. Qualcuno si è preso la briga di calcolare che un automobilista rispettoso dei limiti di velocità imposti dai cartelli, per andare da Bologna a Porretta impiegherebbe qualcosa come 3 ore e passa! La tentazione di dar sfogo ai cavalli della mia auto fu presto vanificata da un camion con rimorchio, sulla cui scia fummo costretti a metterci poco prima dell’abitato di Pioppe di Sàlvaro. Cosa trasportasse non mi è dato sapere, ma quello che è certo è che per portare a destinazione il pesante carico, il motore del bestione emetteva un fumo nero e acre che toglieva il fiato. Una volta, incontrando un mezzo particolarmente inquinante, si diceva: “Brûśet di strâz?” Oggi bisognerebbe dire: “Vai bene a fare il bollino blù!”.

Essere costretti a seguire uno di questi giganti sulla Statale 64 Porrettana può

trasformare una tranquilla gita fuori porta in un’esperienza che ti segna per tutta la vita. Ragion per cui, onde esorcizzare la tentazione di un sorpasso azzardato, decisi di fermarmi.

La tregua finì davanti a quel curioso toponimo.

– Pioppe di Sàlvaro… cosa vuol dire “pioppe”?

“Pioppe” sta per “pioppo”, che i romani chiamavano “populus”, e che in dialetto diventa “fiòpa”, mentre Sàlvaro è il nome del monte che sovrasta l’abitato omonimo. Quindi – conclusi – il nome si riferisce agli alberi di pioppo che in questo posto sono evidentemente numerosi, soprattutto nella zona prossima al fiume, detta “berleta” o, in dialetto, “barlaida”…

Populus, pioppo, pioppa, fiòpa… tanti nomi per un umile e generoso albero non particolarmente pregiato, buono per fare della carta, che gli ispanici chiamano “àlamo”. Alamo? Allora la famosa battaglia che vide i texani soccombere di fronte

all’esercito del generale Santa Ana, se combattuta dalle nostre parti sarebbe nota come “la batâglia dla fiòpa…”.

Per chi viaggia in auto verso Porretta, la “diretta” di Vergato rappresentava l’unica possibilità di superare in relativa tranquillità camion, autobus e automobilisti della domenica, naturalmente ignorando la segnaletica sia orizzontale che verticale. Il lungo rettilineo che termina alla Carbona è un subdolo invito alla trasgressione, che può concludersi tra le grinfie di un’autovelox appostata ad hoc  per immortalare l’incauto automedonte. Poi c’è la nuova superstrada, piantata nel letto del Reno, e la lunga galleria di Riola, un vero toccasana per gli abitanti del luogo (commercianti esclusi). Ridipingere le facciate delle abitazioni che si affacciano sulla Porrettana credo fosse come lottare contro i mulini a vento: tempo qualche mese e le tinteggiature amorevolmente stese sui muri sarebbero state destinate inesorabilmente ad assumere un uniforme culåur bartén (grigio).

Questa volta, però, evitai il tunnel per mostrare alla piccola la mole orientaleggiante della Rocchetta Mattei e la chiesa di Alvar Aalto.

 – Mi sembra uscita da un film! – fu il commento rivolto alla prima – Assomiglia alla palestra della scuola… – fu invece la riflessione riservata al capolavoro di uno dei massimi architetti del ‘900. Si narra che Riola sia una delle località italiane con la più alta concentrazione di extracomunitari, in gran parte di religione musulmana. Mi chiedo quale peso possa aver avuto nella loro scelta la presenza della Rocchetta Mattei, con il suo aspetto da “mille e una notte” appenninica.

 – Papà! C’è una montagna bianca!

Il Corno alle Scale appare così, dopo una curva, all’improvviso, candido nell’ultima neve primaverile. I monti che lo contornano, la Nuda, il Monte Grande, l’Uccelliera, verdeggiano di erba nuova. Solo lui, massima vetta della Provincia (1942 metri s.l.m.), continua ad essere ammantato di bianco. È lui o, per meglio dire le sue falde, la mèta del nostro viaggio. Ora, però, stiamo passando per Cà dei Ladri, luogo sicuramente infido un tempo, oggi colossale discarica in servizio permanente effettivo per i comuni viciniori. Si narra che qui sia finita anche una partita di rusco di provenienza partenopea…

Ancora poche curve ed ecco Silla. Qui occorre operare una scelta: proseguendo si va verso Porretta e la Toscana; a destra, invece, verso Gaggio Montano, Lizzano in Belvedere e Vidiciatico: l’Alto Appennino, insomma. Il Silla anzi, la Sêla, come diceva il nostro indimenticato avvocato Giorgio Filippi, cantore e strenuo paladino di questi luoghi, è il torrente che scende dal Corno e che proprio qui si immette nel Reno, lungo il cui corso decisi di proseguire. Da Porretta prendemmo a destra in direzione Castelluccio, un’alpestre frazione in cui trascorsi le prime vacanze montane alla fine degli anni quaranta. Affetto da tåss catîva – la pertosse – venivo evitato come un lebbroso dagli altri cinni… Prima di questo borgo, però, ecco Capugnano, luogo d’origine della famiglia di Guglielmo Marconi. Strano destino quello di Capugnano: è stato la culla di due personaggi la cui fama, per vie diverse, è giunta fino a noi. Il primo, genio indiscusso, gloria italica in tutto il mondo. Il secondo – Giovannino (o Zanino) da Capugnano – lo scemo del paese con velleità artistiche, che lo portarono – lui, poco più di un sbianchiżén, imbianchino o pittore di interni (senza offesa per la categoria…) – a divenire garzone di bottega nientemeno che dei Carracci, per i quali rappresentò il bersaglio ideale per un’infinità di scherzi e lazzi, spesso messi a segno da quel mattacchione di Leonello Spada. Se vi capita di andare nella sede della Famajja Bulgnaiśa, date un’occhiata all’affresco distaccato che campeggia nell’atrio del sodalizio. Pare eseguito da un bambino dell’asilo ed è firmato “EGO IOANES DEGANINIS DE CAPUGNANO FECIT (..) 1610”. Ma il bello è che nello stesso atrio vi è anche il busto di Marconi, Presidente Onorario Perpetuo dell’Associazione… Il genio e lo scemo del paese!

Da Castelluccio, il Corno alle Scale si presenta in tutta la sua imponenza: mille metri di strapiombo! Naturalmente mia figlia volle conoscere i nomi dei monti che gli fanno da corona: quello sulla sinistra è il monte Gennaio, detto anche Serra dell’Uccelliera. Pressato dalle domande spiegai che quelli intorno non sono il monte Dicembre e il monte Febbraio. La Nuda si chiama così non perchè ogni tanto faccia capolino tra i mughi una signora discinta, ma per l’assenza di vegetazione arborea. Il monte Grande, nonostante il nome, è più basso del Corno, ma supera in altezza il monte Pizzo, che sovrasta Lizzano, ed ecco perchè dal paese pare così “grande”. Il passo di Porta Franca non è dedicato a una signora con quel nome, ma si riferisce agli spalloni che ivi transitavano un tempo per fare contrabbando fra Toscana ed Emilia: passando di lì si era “affrancati” da dazi e gabelle. Erano una versione appenninica dei tîra só bolognesi, robusti giovanotti che, per eludere la sorveglianza dei dazieri, dall’alto delle mura issavano nottetempo quarti di bue da spacciare in città.

– Vuoi che andiamo a Madonna dell’Acero?

La figliola annuì.

Quanti ricordi suscita il nome di questo luogo “elencato fra le cento bellezze naturali d’Italia”, come recita un vecchio cartello. Da cìnno in età pre-scolare, come si dice oggi, dopo un pellegrinaggio in compagnia di mio nonno maturai la convinzione che il nome esatto fosse “Madonna del Lacero”! Il cinque agosto, festa del Santuario, attirava un tempo frotte di questuanti che arrivavano dalla Toscana, abbigliati ad hoc e cioè: barbe incolte, vestimenti rattoppati, alcuni addirittura con una specie di saio e bastone da pellegrino. Laceri, insomma… La mia scolarizzazione, e la giusta apposizione di un apostrofo, rimisero in seguito le cose a posto.

“Vile! Tu uccidi un uomo morto!” è la celebre invettiva che Francesco Ferrucci lanciò all’indirizzo di Fabrizio Maramaldo alla battaglia di Gavinana, il 3 agosto 1530 (il mio amico Luigi Lepri, dotto cultore del dialetto bolognese, l’ha petronianizzata così: “Bèla fôrza mazèr ón ch’al chèga!”). Brunetto Brunori partecipò a quella battaglia beccandosi una ferita terribile, come si può vedere dall’ex voto ligneo presente nel Santuario: quattro statue a grandezza naturale che ritraggono lui, la moglie Lupa e i figli Leonello e Nunziata. Brunetto ha il petto trapassato da una lancia, una ferita che anche ai nostri giorni rappresenterebbe un grosso problema (codice rosso al Pronto Soccorso del Maggiore), ma alla quale lui sopravvisse grazie all’intercessione della Vergine e, aggiungo io, un fisico eccezionale. Erano tempi, quelli, in cui bastava un graffio per andare al Creatore dopo inenarrabili  sofferenze.

 – Sóppa, chissà che male! commentò mentre osservava il quartetto votivo.

Dall’Acero al Cavone sono pochi minuti di auto, fra cumuli di neve che l’esposizione a nord preservava dallo scioglimento. Stavamo lasciando il regno del castagno e della quercia per entrare in quello del faggio. Tralascio l’abete per ragioni botanicamente razziste: la sua introduzione forzata in questi luoghi fu una pensata di qualcuno che, all’inizio dello scorso secolo, volle dare ai nostri monti un aspetto nordico. Invece la messa a dimora di esemplari di Pinus Italicus lungo la Porrettana, deve essere stato il tentativo di un qualche gerarchetto locale per trasformare la Statale 64 in una specie di Appia Antica. Erano gli anni in cui Respighi esaltava magistralmente la romanità con i due poemi sinfonici “Le fontane di Roma” e “I pini di Roma”… Se avesse rivolto il suo genio verso casa, chissà, forse avrebbe potuto comporre “Le fioppe di Bologna”…

Il laghetto del Cavone si presentò smeraldino e ancora parzialmente ghiacciato. Il grande parcheggio per gli sciatori occupato da numerose auto, in attesa che i proprietari si stancassero di andar su e giù per le piste ancora innevate.

 – La seggiovia funziona! – mi fece notare la mia piccola compagna di viaggio.

 – Allora: andiamo!

Papà, come si chiama la seggiovia in dialetto?

Domande di questo genere mettono serie ipoteche sulla mia presunta conoscenza della lingua dei nostri padri. Semplice cavarsela con un letterale segiovî, e allora azzardai un ridanciano scranovî, ricordando che i dialetti si evolvono con i tempi (televiśiån, celulèr). Il neologismo più azzeccato l’ha inventato Silvano Rocca, ottimo poeta e narratore dialettale, chiamando seltacanèl il telecomando… Perso fra le mie elucubrazioni, la stazione di arrivo al Rifugio delle Rocce apparve all’improvviso, oltre il ciglione che un tempo si raggiungeva solo scarpinando. Di lì, un altro tratto porta fino alla sommità del Corno ma, ahimè, scoprii che questa ultima frazione è riservata agli sciatori. La grande croce era quasi a portata di fiato, forse solo un’oretta di cammino, ma la mia totale mancanza di allenamento fu sul punto di farmi desistere. Poi, un soprassalto di orgoglio mi spinse ad incamminarmi lentamente lungo il bordo della pista, dove la neve aveva già ceduto il posto al verde cupo dei mirtilli, che qui chiamano bàggioli. Procedevo alla maniera degli sherpa himalaiani: brevi rapidi passi e poi sosta per prendere fiato.

La mia piccola guida mi attese seduta sulla base della croce. Il sole era ormai alto

quando anch’io mi sedetti, in vero piuttosto provato, per dare ristoro alle gambe e ai cardinzén (i polmoni). Così come feci tante volte in passato, osservavo il grande simbolo della cristianità che domina di lassù la nostra terra. Quella che oggi si erge sulla vetta del Corno non è la croce originale, che fu segata alla base e fatta precipitare una notte di tanti anni fa. Mai come in questo caso fu azzeccato il detto: “La mèder di cretén l’é sänper inzénta e quand la parturéss la fà dû gemî” (La madre dei cretini è sempre incinta e quando partorisce fa due gemelli).

Laggiù, verso la Segavecchia, luccicava un torrentello che porta le sue limpide acque in Séla e poi in Reno.

– Vedi là in basso? – mormorai – una parte di quell’acqua tra qualche ora, o forse

domani, passerà sotto al Pånt dla Biånnda (il Ponte della Bionda).

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