Giovannino da Capugnano | di Fausto Carpani

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Di lui Carlo Cesare Malvasia nel suo Felsina Pittrice scrisse: sognossi questo villano di saper dipingere, senza mostrarvi una minima disposizione

di fausto Carpani

Nell’atrio della bella ed elegante sede della Famèja Bulgnèisa, il solenne busto di Guglielmo Marconi, presidente onorario perpetuo del sodalizio, è sovrastato da un antico affresco che pare dipinto da un bambino: uomini più alti delle case, alberi appena abbozzati, uccelli in volo che paiono enormi virgole. Quel busto e quella crosta hanno in comune un denominatore: Capugnano, località appenninica in comune di Porretta Terme. Il genio e la goffaggine uniti forse solo per un puro caso, fermo restando che in quel borgo appenninico ebbero origine ambedue: il padre di Marconi e Giovannino (o Zanino). Del mago della radio si sa praticamente tutto perchè, oltre che un grande scienziato, fu anche un accorto amministratore delle proprie invenzioni e della propria immagine. Mentre le poche notizie sul “pittore” Giovannino sono fornite da Carlo Cesare Malvasia, che nel suo Felsina Pittrice, vite de’ pittori bolognesi ne parla in coda alle note biografiche di Leonello Spada, grande amico dei Carracci e pittore insigne. Questa strana associazione è da imputarsi al fatto che, come scrive il Malvasia, sognossi questo villano di saper dipingere, senza mostrarvi una minima disposizione. 

Giunto a Bologna dai natii monti, Zanino vi aprì una bottega d’arte ancorchè nissuno da lui capitasse a servirsene, fuori che a tingere di rosso qualche cassa vecchia, a dare il color di noce a qualche armario… Insomma: clienti zero.

Capitò una volta che, ricevuto l’incarico di dipingere in campagna qualche casa, altro non sapea farvi che canne per diritto ed uccelli volanti per traverso. Avendo pattuito un tanto a centinaia (di uccelli), n’empieva tutte le mura della casa, sino al granaio, e della cantina, onde bisognava farglili cancellare…

Un tale si arrischiò a fargli dipingere l’esterno di una colombaia nuova con dei piccioni volanti ma non dando mai l’animo ad alcuno di riconoscerli, vi scrisse sotto: questi sono piconi.

Il nostro “artista” ebbe anche l’ardire di far Madonne e Immagini sacre, onde fu necessario che Monsignor Vicario vi ponesse le mani e gliele proibisse. Non pago, dipinse un’altra madonna con sotto queste parole: Joanninus de Capugnano fecit istam bellam Madonninam devotionis gratia, al dispetto del Vicario, a cui la fece pervenire e il quale, inviperito, lo minacciò di arresto.

Ritenendosi ormai artista di chiara fama, il nostro si rivolse ad Agostino Carracci affinché gli procurasse un garzone di bottega e questi gli mise accanto un giovane di belle speranze, ansioso di apprendere i segreti dell’arte pittorica: Leonello Spada. Naturalmente Zanino era all’oscuro del fatto che l’apprendista era già un pittore affermato e, soprattutto, un burlone patentato. Avvenne che un giorno Zanino, dovendo assentarsi per andare in campagna per dar di colore colla vernice ad un rastrello, raccomandò al giovinotto di aver cura della bottega, chiuderla alla sera e riaprirla il mattino dopo.  A questo punto scattò l’indole burlesca di Leonello: prese una teletta e postovisi a pinger sopra una bellissima testa di Lucrezia Romana, questa lasciata sul treppiedi e riportate le chiavi a casa del maestro, la mattina a buon ora invece d’andare ad aprire affisse sopra la serraglia le infrascritte ottave rime:

Giannin da Capugnano era un pittore

Copioso di capricci , e d’invenzione;

E i più bei grilli avea, che saltin fuore

A un pittor dal lunatico zuccone:

Senza alcun studio, senza precettore,

Postosi a esercitar la professione,

S’accorse, al don d’una ferace idea,

D’esser nato pittor, e nol sapea.

A la prima cogliea senza la bozza,

E stimava superfluo il disegno;

Senza pennelli, senza tavolozza,

Pochissimi colori, e manco ingegno:

Quella del vino sol fu la sua bozza,

La man, la tela ed il pennello un legno;

Lavorava a giornata, e con vantaggio,

Ad un tanto la pertica, e buon saggio.

Se pingea qualche casa a un tanto il giorno,

E ch’il padron foss’ito a pranzo a cena,

la trovava fornita al suo ritorno,

e la cantina di spegazzi piena:

Poscia dipinto il pozzo, il cesso, il forno,

E ritratto il padron s’era di vena,

(Con la comodità ch’era imprimita)

Del cacator su l’asse con le dita.

I villani l’alzavano a le stelle,

Per quel suo tirar giù da disperato,

E stimavan quell’opre assai più belle

Col verde fin su i volti, e l’incarnato:

Era il lor Zeusi, il lor divino Apelle,

E chi n’avea qualch’opra era beato,

Ch’ella tenea di casa, in doppia guisa,

I piccioli in paura, i grandi in risa.

Se mai qualche ritratto lavorava,

volea colpir in fin l’originale,

Mentre d’imprimatura almen tirava,

Una scodella in faccia di quel tale:

Se mai di suo pensiero contornava

Qualche invenzione in fondo a un’orinale,

Era bisogno, a farla manifesta,

Scrivergli sotto: la tal cosa è questa.

Se dipingea qualche figura a guaccio

E la tela sul mur fosse distesa,

Principiava da’ piedi, onde il mustaccio,

O la testa sul mur restava appesa:

E se l’altro gridava, il pittoraccio

Scusavasi con dir: per non far spesa,

Voi sol feste l’error, che non compraste

Tanta tela a dipingerla che baste.

Che ridicolo umor! Se mai talvolta

Qualche pacchiano in villa il conducea,

A dipingere a fresco o muro, o volta,

E la cipolla in tavola ponea,

Chiamando i bizzarrioni egli a raccolta,

Ogni figura in schiena dipingea,

Dicendo, ch’al fetor di quel suo pranzo

Fuggia volte le spalle, e facea scanso.

D’aver nissuno in capo poi s’imprima

In credito maggior tal’Arte alzata,

né Lodovico, che sul Reno in prima,

Posto ha il sal ne’ colori alla spallata:

Ne’ qual’altro si sia di prima cima

La sorte di Giannino ha mai calcata,

Mentre d’un quadro il prezzo avuto a farlo

Gli verrà duplicato a cancellarlo.

La Nobiltà perciò stima ventura

Un pezzo solo aver di si bell’opre,

E ne fa fede chi la sua fattura

A giorni d’oggi ormai di seta copre;

Ed in ultimo al fin d ogni pittura

Al forestier con gravità discopre,

Dicendo con ridicola sodezza:

Questa è del Raffael de la goffezza.

La mattina seguente, arrivando a bottega, Zanino trova un rugletto di gente sghignazzante davanti alla bottega chiusa. Fattosi largo, visto il cartello e lettone il contenuto satirico, lo staccò e con quello si recò da Agostino Carracci che gli assicurò che non potea aver ciò fatto Leonello, per essergli appunto la sera venuta la febbre. Naturalmente non era vero e, Zanino, trovata la testa della Lucrezia ancor fresca di vernice disse: vedete Signor Agostino quanto profitto ha fatto costui in sì pochi giorni?

Dopo questa affermazione il Carracci ritenne di dover aprirgli gli occhi

una volta per tutte: è possibile che non ti avvenga ancora che sei un goffo?che ti fai burlare a tutto il mondo? E che nemmeno sei degno di macinar le terre a questo giovinotto?

Zanino comprese la burla in cui era incappato per sua dabbenaggine e, soprattutto, parve rendersi conto che, con le sue scarse capacità pittoriche, avrebbe potuto tuttalpiù fare il garzone di bottega dei Carracci, “macinando le terre” per preparare i colori.

E la “Lucrezia Romana” dipinta da Leonello?

Zanino non era del tutto tonto: come scrive il Canonico Malvasia: vendette quella testa più che si guadagnasse in sei mesi…

                                                                               

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