I pozzi di Bologna 

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I pozzi, tasselli di un mosaico d’acqua di insospettata ricchezza, delineano tratti suggestivi della storia di Bologna. Decine e decine, dai più maestosi, elementi architettonici degni di un Podestà, a quelli riconvertiti, come la camera blindata di Sala Borsa (un tempo cisterna del pozzo dell’Orto dei Semplici), fino ai più  nascosti, accessibili solo passando per scantinati e sotterranei.

Una città dove questi protagonisti della vita quotidiana arrivarono a dare il nome ad  interi “borghi”; è il caso di Pozzo Rosso o dell’antica via del Pozzo degli Oseletti (Orfeo) o di via del Pozzo, per poi divenire luoghi di incontro e punti consolidati per l’affissione di avvisi di pubblico interesse. Da non confondere, invece, con toponimi come via dei Pozzetti, sulla prima collina, dove l’origine del nome è evidentemente altra, legata alla natura carsica del territorio con presenza di inghiottitoi nella selenite.

Naturalmente, in città chi poteva permetterselo aveva il pozzo privato. Spiccano quelli siti nei chiostri, fra i più noti quello di Santo Stefano circondato dal loggiato medievale eretto tra l’XI ed il XIII secolo, o la sua mitica raccolta, nella chiesa del Santo Sepolcro, le cui acque miracolose, derivate in prossimità dell’edicola che racchiudeva i resti di San Petronio, erano capaci di curare i mali peggiori. Questo pozzo, ricollegabile alle acque del Giordano nella Gerusalemme simbolica Bolognese, era divenuta una gettonata meta per pellegrini e bisognosi, accorsi  a decine al luogo sacro, richiamati dal mormorio del popolo e dai racconti dei miracolati in una piazza che nel trecento si dovette addirittura dotare di tendoni per ospitarli. Questi racconti di fede e miracoli avrebbero contribuito ad ispirare la costruzione della grande basilica in onore del Santo. 

 Splendido il pozzo racchiuso nel quadriportico quattrocentesco del convento di San Francesco, o quello dell’Annunziata, o del chiostro del Convento agostiniano di San Giacomo, riconvertito nel 1804, sotto il governo napoleonico a Liceo Musicale, oggi conservatorio. Un tempo era visibile anche il pozzo dell’antico convento dei “Padri delle Acque”, ora chiuso nel complesso residenziale in via San Mamolo.

La lista potrebbe continuare, arricchendosi di una miriade di altri luoghi. Fra questi, San Michele in Bosco si discosta per un’architettura unica che gioca su motivi geometrici dalle suggestioni acquatiche convenzionali, col suo chiostro ottagonale, realizzato nella struttura. Un colle ricchissimo di falde di sommità che, seppur captate nel complesso della Fonte Remonda, non sfuggivano verso la città, senza aver soddisfatto i bisogni dei religiosi riempiendone le cisterne.

Oggi, nei cortili fra le vie del centro, troviamo specchi di acqua nera conficcati nel terreno che riflettono alcune delle pagine più scure della storia della città: corpi occultati, tentati avvelenamenti fra monaci facinorosi, ma anche fenomeni di scala maggiore, quali epatiti virali, tifo, il Morbo Asiatico (il colera). Nell’ottocento le falde contaminate della città erano appesantite dall’abuso di una popolazione che insisteva ciecamente sulle sue risorse, scaricando nel terreno da cui beveva. Suona quasi beffarda, proprio alla fine di tale secolo, la messa in commercio dell’Acqua minerale salino magnesiaca del Navile, imbottigliata in una delle zone più sospette, in quanto a salubrità, della città. Se ancora nel seicento via de’ Poeti si distingueva per il suo nome di “Via del Pozzo dell’Acqua Buona”, pur essendo a pochi passi dall’Aposa, dal 1905 con Francesco Zanardi si riconosce la non potabilità delle acque dei pozzi alimentati dalla falda freatica e si definisce un nuovo regolamento di igiene, proseguendo in una direzione ormai definita. La riattivazione dell’Acquedotto Romano, nel 1881, aveva segnato il lento ma inesorabile tramonto degli antichi pozzi cittadini.

Tuttavia, in una città delle acque, i pozzi rimangono un simbolo che supera i secoli.  A chi attraversa via San Felice allontanandosi dal centro, poco oltre la porta, potrà capitare di sobbalzare su un grosso “tombino”, la copertura in granito dell’antico pozzo della “vil Secchia di legno”, la mitica Secchia Rapita.

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