Rendono Bologna unica, viva e accogliente. Per l’Unesco sono Patrimonio dell’Umanità
dI Serena Bersani
foto di Guido Barbi – www.guidobarbi.it
Sarà l’alternarsi quasi metafisico di ombre e luci dai contorni netti e senza sfumature. Saranno i pavimenti in palladiana che danno l’idea di camminare nel salotto della nonna. Saranno i passi che risuonano sul vuoto di antichi scantinati. I bolognesi non avevano bisogno del riconoscimento dell’Unesco per i portici, che sono da sempre Patrimonio del loro cuore, prima che dell’Umanità. Ma ora che quel riconoscimento è arrivato, quando ormai si era messa da parte l’idea, almeno per quest’anno, l’occasione è buona per riscoprire il tesoro che appartiene a tutti, perché i portici sono uno spazio privato aperto al pubblico, dove si può trovare riparo o sostare perché invitano alla socialità.
I portici del resto sono un po’ un prolungamento della casa sulla strada e in alcuni momenti storici, come nel dopoguerra, lo sono stati veramente per accogliere le tante famiglie che avevano perduto i loro alloggi con i bombardamenti. Bastava una tenda a coprire l’arco, qualche materasso e un fornelletto per trasformare quegli spazi in tinelli di fortuna annullando la differenza tra dentro e fuori.
Un patrimonio in continuo movimento, sempre in crescita, perché i portici attraversano i secoli dal medioevo in poi e anche le nuove costruzioni in periferia rispettano la bolognesità architettonica proponendo edifici con il portico. Un esempio moderno è il Treno, il lunghissimo porticato costruito negli anni Sessanta all’estremità del quartiere Barca, l’ultima propaggine di Bologna, dietro al quale tramonta il sole e che in prospettiva sembra davvero un lungo convoglio piegato in una dolce curva. Proprio l’aver inserito anche questa costruzione tra i tredici esempi da candidare a “patrimonio dell’umanità” aveva fatto storcere il naso a più di un commissario Unesco. Progettato dall’ingegnere bolognese Giuseppe Vaccaro, lungo 500 metri, è la rappresentazione moderna dell’identità architettonica bolognese. Per questo il Comune ha tenuto il punto perché anche quel portico, che sorregge un’infilata di case popolari, abitate dai cittadini più poveri, è espressione dell’animus loci di Bologna. Infatti i portici, già nel XIII secolo, nacquero per le esigenze del popolo non certo dei signori, per ampliare le modeste abitazioni costruendo all’esterno una stanza che doveva essere sostenuta da pilastri. Una stanza in più magari da affittare già allora ai tanti studenti, compreso il ventenne Dante Alighieri, che soggiornavano in città per frequentare le lezioni dell’Alma Mater. A dimostrazione di ciò, i pochissimi palazzi del centro storico privi di portici sono quelli nobiliari. Un esempio è Palazzo Albergati in via Saragozza, che in origine il portico l’aveva ma venne eliminato nel 1520 quando la sontuosa dimora venne ricostruita, probabilmente da Baldassarre Peruzzi, secondo la consuetudine delle case senatorie. Un altro evidente esempio è Palazzo Fantuzzi, uno dei pochissimi edifici non porticati di via San Vitale e uno dei primi palazzi rinascimentali (è del 1521) fatti costruire con questa caratteristica anomala per Bologna. Di qualche decennio dopo, 1551, è il nuovo Palazzo Bentivoglio, fatto erigere in via Belle Arti da un ramo dell’illustre casata che governò Bologna. Anche qui il portico è assente ma, in compenso, alla base del palazzo si trova un insolito elemento architettonico, una specie di panca in pietra che consente ai passanti di sostare. Tra i rari edifici antichi non porticati anche il Palazzo Davia Bargellini in Strada Maggiore 44 fatto costruire da Camillo Bargellini a partire dal 1638. Impossibile non notarlo per le due nerborute figure maschili in pietra che sostengono la facciata come se fossero imponenti colonne.
Ma a parte questi rari casi, i palazzi del centro storico sono quasi tutti dotati di portico o, in alternativa, dei suoi progenitori, i beccatelli, che a Bologna si chiamano “beccadelli”. Si tratta di quegli sporti in legno o pietra che si notano in molti edifici medievali e che servono per sostenere una parte superiore dell’edificio più grande di quella sottostante. Un tipico esempio è quello delle case Schiavina, nel Quadrilatero, all’angolo tra via Clavature e via Drapperie, dove imponenti “beccadelli” in legno risalenti al XIII secolo sorreggono le parti sporgenti dell’edificio sopra i negozi. Insomma, la Bologna medievale aveva bisogno di allargare gli spazi domestici a costo di restringere le strade e così la struttura del portico divenne dominante, ma non uniforme per la varietà assoluta di colonne, capitelli e pavimentazione dei sottoportici. Di fatto, essendo uno spazio dei proprietari del palazzo, ciascuno lo ha fatto a proprio gusto e anche per quanto riguarda la manutenzione gli attuali proprietari la gestiscono in autonomia (rispettando le linee guida del Comune, ovviamente). La mattina presto è immagine consueta vedere i negozianti o i residenti del centro storico con secchio e spazzolone pulire il proprio pezzetto di sottoportico.
D’altra parte, fin dal medioevo il Comune aveva attribuito la manutenzione dei portici ai proprietari della casa, oltre ad averne normato le dimensioni con regole precise. A metà del Duecento i portici dovevano essere alti almeno sette piedi, equivalenti a 2,60 metri, per consentire il passaggio di un uomo a cavallo. Ne restano esempi nel portico di piazza della Mercanzia e in quello di Casa Isolani in Strada Maggiore 19, che con i suoi nove metri è il più alto tra i portici in legno cittadini, nonché uno di più antichi, risalente al XIII secolo. Di portici in legno, la cui costruzione venne vietata dal Comune a partire dal 1288 per via della loro pericolosità in caso d’incendio, ne restano pochi altri in città. Due si fronteggiano in via Marsala, il più bello è quello di Casa Grossi, attuale sede del Circolo Ufficiali, in cui si ammira un raro esempio di portico ligneo a stampella simile a quello di Casa Isolani. Tra i più alti di epoca medievale, subito dopo quello di Strada Maggiore, c’è quello della Curia arcivescovile di via Altabella, costruito nel XIII secolo per volere del vescovo Enrico della Fratta. Tra gli edifici di epoca moderna, invece, il portico più alto è quello della casa editrice Zanichelli in via Irnerio, un esempio di architettura fascista monumentale, sorretto da pesanti colonne di marmo, progettato dall’architetto Luigi Veronesi nel 1935 per volere dell’editore. Era previsto anche un gemello di questo palazzo, che sarebbe dovuto sorgere all’angolo con via Mascarella, unito al primo per mezzo di un grande arco con galleria sottostante, ma lo scoppio della seconda guerra mondiale spazzò via questo progettò. Della stessa epoca del palazzo Zanichelli, 1936, e appartenente allo stesso spirito modernista, è l’alto portico del Palazzo del Gas all’angolo tra via Marconi e via Riva di Reno. Di inizio secolo è invece l’altissimo portico dell’ex forno del pane voluto dal sindaco Zanardi nel 1917 e oggi sede del Mambo. Tutti i portici degli edifici novecenteschi tendono a essere più alti e vasti di quelli medievali, come dimostrano quelli degli edifici lungo gli assi della T, via Ugo Bassi-Rizzoli-Indipendenza, con destinazione prevalentemente commerciale, luoghi di struscio e di sosta per ammirare le vetrine.
Uno dei più suggestivi scorci di Bologna è quello del portico dei Teatini, che affianca due lati della chiesa dei Santi Bartolomeo e Gaetano in Strada Maggiore, proprio dietro le Due Torri. E’ ciò che resta di un palazzo, mai edificato, voluto nel 1516 dal priore Giovanni di Bernardino Gozzadini e purtroppo il degrado dovuto al trascorrere del tempo e all’inquinamento ha quasi cancellato gli splendidi bassorilievi realizzati da Andrea Marchesi detto il Formigine sulla pietra arenaria dei pilastri, compresi gli stemmi nobiliari e le candele scolpite in verticale su ciascuna delle ventitré colonne.
Il portico più largo è il lungo spazio coperto che affianca la basilica di Santa Maria dei Servi, sempre in Strada Maggiore. Progettato dall’architetto Antonio Di Vincenzo, detiene anche il primato della costruzione più protratta nel tempo; infatti venne iniziato nel 1393 e ultimato solo nel 1855 con la costruzione del quadriportico davanti alla facciata. Uno spazio cinematografico, utilizzato anche da Pier Paolo Pasolini per ambientare la passeggiata del protagonista mendicante, ormai vecchio e cieco, del suo Edipo re. In realtà il luogo del cuore di Pasolini, che a Bologna visse l’adolescenza e la giovinezza fino alla laurea, era un altro portico, quello della Morte, cioè il tratto che interseca quasi a metà il portico del Pavaglione. Il nome gli deriva dallo scomparso ospedale di Santa Maria della Morte, dove venivano portati i moribondi, i condannati a morte e i cadaveri dei giustiziati da lasciare in carico dai medici dello Studio per le loro analisi anatomiche. Pasolini in realtà lo amava non tanto per l’atmosfera buia e fosca che questo angolo mantiene anche d’estate, quanto per la presenza di una grande libreria con espositori all’esterno, sotto il porticato appunto, in cui – racconta il poeta – trascorse tanti pomeriggi sfogliando i libri a poco prezzo e dove maturò la sua passione letteraria.
Quanto al Pavaglione, che si estende sotto il Palazzo dei Banchi e l’Archiginnasio dall’angolo con via Rizzoli a quello con via Farini, è il salotto buono della città, luogo di passeggio e di shopping. Realizzato a metà del Cinquecento su progetto del Terribilia per volontà di papa Pio IV, prende il nome dal grande padiglione che si ergeva un tempo all’altezza di piazza Galvani dove si teneva un importante mercato dei bachi da seta. L’angolo con via Rizzoli, già all’inizio del Novecento chiamato «al cantòn d’imbezell» (l’angolo degli imbecilli), prende il nome dall’abitudine tutta maschile e poco elegante di sostare con conoscenti occasionali e fare commenti dopo il passaggio di una signora. Accanto, affacciato su piazza Maggiore, c’è il Palazzo del Podestà, con il voltone dal suggestivo effetto di eco tra una parete e l’altra e il suo maestoso portico che guarda San Petronio. La sua particolarità è che le antiche massicce colonne vennero rivestite da circa 12.000 formelle durante il rifacimento dell’edificio voluto nel 1484 da Giovanni II Bentivoglio. Sono una diversa dall’altra, a parte due che sarebbero uguali ma è impossibile trovarle anche perché molte sono consunte dal trascorrere del tempo.
Tra i portici rinascimentali, oltre a quelli che costituiscono il Pavaglione, i più belli sono quelli di piazza Santo Stefano, in particolare quello di palazzo Bolognini Isolani, la cui splendida corte arriva fino in Strada Maggiore, e quello del Baraccano in fondo a via Santo Stefano dove ha oggi sede il Quartiere. Anche questi fanno parte del gruppo portato ad esempio ai commissari dell’Unesco per rappresentare il particolare patrimonio urbanistico bolognese, insieme a quelli di via Zamboni che si inoltrano nella città universitaria, a quelli nobili e silenziosi di via Galliera, a quelli sfarzosi da “salotto buono” tra via Farini e piazza Cavour in contrapposizione a quelli popolari di via Santa Caterina.
Ritornando ai primati, il portico più stretto – appena 85 centimetri – si trova in via Senzanome, una laterale di via Saragozza. In realtà questa stradina si chiamava un tempo via Fregatette, forse perché talmente stretta che i tetti quasi si toccano da una parte all’altra della strada o forse perché era sede di case di tolleranza. Secondo la tradizione un papa di passaggio, conosciuto il toponimo, esclamò: «Oh, che sozzo nome!». Da quel momento la strada prese il nome di via Sozzonome, mutuato poi per affinità di suoni nel dialetto bolognese in via Senzanome.
Il più antico portico fuori dalla cerchia delle mura cittadine è quello degli Alemanni, all’inizio di via Mazzini. Già dal 1619 nacque l’idea di costruire un portico che collegasse porta Maggiore alla località nell’immediata periferia chiamata fin dal 980 degli Alemanni, non è bene chiaro per quale ragione storica. Venne terminato nel 1631 e lungo i suoi seicentocinquanta metri si susseguono centosessantasette arcate.
Il porticato di San Luca è invece il più lungo con i suoi quasi quattro chilometri e seicentosessantasei archi. Nacque per devozione e con lo scopo di proteggere dalle intemperie i pellegrini che si recavano al santuario. Costruito tra il 1674 e il 1793 sotto la guida degli architetti Gian Giacomo Monti e poi Carlo Francesco Dotti che progettò anche l’arco del Meloncello, vide il concorso di moltissimi cittadini non solo per partecipare alle ingenti spese di costruzione ma anche per contribuire in prima persona alla realizzazione dell’opera. Formando una lunghissima catena umana, realizzarono un «passamano» che permetteva di trasportare i materiali fino alla cima del colle, suddividendo tra tanti la fatica e dimostrando che l’unione delle forze permette di raggiungere grandi traguardi. Un’opera faraonica, unica al mondo.
Anche per arrivare al Meloncello si percorrono chilometri di portici, come quelli che caratterizzano tutto il lato destro di via Saragozza uscendo fuori porta o come il porticato dello stadio Dall’Ara che fiancheggia un lato del cimitero monumentale della Certosa con i suoi duecentoventi archi. Nel dopoguerra vennero utilizzati come abitazioni dagli sfollati e da chi aveva perduto la casa con i bombardamenti, così come accadde, dall’altra parte della città, al seicentesco portico dei Mendicanti di via Albertoni che corre lungo l’edificio un tempo adibito a ricovero. Un altro bel portico fuori porta è quello rinascimentale a sedici archi del complesso di Santa Maria dell’Annunziata a Porta San Mamolo con affreschi seicenteschi nelle lunette, che venne utilizzato anche come lazzaretto durante la peste.
Insomma, in qualunque epoca e ovunque si trovino, i portici di Bologna confermano la loro vocazione all’accoglienza, allo stare insieme, alla condivisione. E, forse ancora più della loro bellezza, è questa caratteristica che li rende degni di essere riconosciuti patrimonio dell’umanità.