I Pivís a Massumadegh

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Le tradizioni popolari della pianura bolognese tra fede, storia e dialetto

di Gian Paolo Borghi

(articolo pubblicato nel numero uscito nell’inverno 2016)

Mons

Con lo pseudonimo Al Duttour Zàss (Il Dottor Gessi), Mons. Angelo Michele Gessi (Pieve di Cento, 1849- Roma, 1904), ancora giovane studente universitario, scrive  I Pivís a Massumadegh (I Pievesi a Massumatico), un poemetto dialettale eroicomico che incontrerà un largo successo popolare nel suo paese nativo. Redatto inizialmente per  divertimento suo e degli amici, costituisce un felice esempio di poetica dialettale con il rispetto di tutti i crismi della cultura “colta”, al punto da riscuotere elogi anche da Alessandro Manzoni. Nei primi tempi, i suoi versi circolano manoscritti tra i compaesani che, strofa dopo strofa, li sentono propri e li recitano con loro grande divertimento. Mons. Gessi lo dà alle stampe soltanto nel 1901, a Roma, dove già esercita un alto ministero pastorale. L’Autore trae ispirazione da un fatto storico, avvenuto nel 1376 quando il bandito bolognese Princivalle Bottrigari con alcuni suoi uomini occupa il Castello di Massumatico, tra San Pietro in Casale e Pieve di Cento, di proprietà del Vescovo di Bologna. Nel suo poemetto l’Autore celebra le gesta dei pievesi che in breve tempo ripristineranno l’autorità vescovile.

 

La copertina della seconda edizione del poemetto (Bologna, 1927) e il ritratto di Mons. Gessi pubblicato nella seconda edizione del poemetto.

Scritto in ottava rima, I Pivís a Massumadegh si compone di sei canti, preceduti da un’introduzione. Il Poeta si sbizzarrisce felicemente in un susseguirsi di gustosissimi eventi tra l’epico e il comico, soprattutto per fornire una chiave di lettura del carattere e dei “pregi” dei suoi compaesani, orgogliosamente nati in una terra antiga senza fen,/Con quater port vultedi ai quater vent (antica senza fine,/Con quattro porte girate ai quattro venti). E proprio a proposito dell’indole dei Pievesi, così scrive introducendo il secondo canto:  

Par chi n’cgnoss al carater dal Piveis,

Me j al descriv in soquanti parol;

L’è un bon paston, l’è aligher, l’é curteis,

E al furastir pré toregh al frajol;

Ma si al stuzzighen o s’al s’ritin uffeis

Se l’en ov maza dal tott al va in là un pzol;

Se a j è po’ da difender un inuzent

L’è bon ló soul d’ander contra a dusent.

(Per chi non conosce il carattere dei Pievesi,/Io glielo descrivo in alcune parole ; /È di buona pasta, è allegro, è cortese,/E il forestiero potrebbe prendergli il mantello;/Ma se lo stuzzicano o si ritiene offeso/Se non vi ammazza del tutto va in là un pezzetto;/Se c’è poi da difendere un innocente/ È capace da solo d’andare contro duecento).

Al Duttour Zàss dimostra assoluta padronanza del dialetto del suo paese finendo per  sbizzarrirsi pure nella composizione di canti come le Romanelle (antiche forme di stornello) e le Filituire (testi cantati da filatori e filatrici della canapa, prodotto principe locale), che in seguito verranno fatte proprie dal popolo e confluiranno nella tradizione orale del paese. Ecco una di queste Romanelle incatenate:

Al pió stupand miraquel d’noster Sgnour

Al fó quand l’acqua tens muder savour;

E quand al g’déss : ti bona da batzer,

Mo è mgnour al muscatel in t’un desner.

(Il più stupendo miracolo di nostro signore/Fu quando l’acqua dovette cambiare sapore;/E quando le disse: sei “buona” da battezzare,/Ma è migliore il moscatello in un pranzo). Il Pievese amante del vino così implora in Rumanèla il miracoloso Crocifisso venerato nella locale Collegiata:

Santessom Cruzifess, me av dmand ’na grazia,

Tgni ben luntan da l’ vid qualonqv desgrazia.

E se un poc d’timpesta av vin la voja,

Mandela in t’i zedron, parchè an s’in coja.

(Santissimo Crocifisso,/io vi chiedo una grazia,/Tenete ben lontano dalle viti qualsiasi disgrazia./E se un poco di grandine vi venisse la voglia [di far cadere],/Mandatela nei cetrioli, perché non se ne raccolgano). Dopo la battaglia vinta, i Pievesi non infieriscono sugli sconfitti e Spanto, il loro condottiero, così si esprime:

Donca cazzè via l’erma e po’ gi basta.

-Basta, basta! Tott s’messen a grider.

Alloura Spanto l’alzé in aria l’asta,

E a cal segn tott desmessen ed piccier,

E po’ a déss: – I Pivís èn bona pasta,

En fan brisa fadiga a parduner;

Se al nostr’arriv as fevi bona zira,

Forsi a v’aren stargè con pió manira.

(Dunque gettate via l’arma e poi dite basta./-Basta, basta! Tutti si misero a gridare./Allora Spanto alzò in aria l’asta,/E a quel segno tutti cessarono di picchiare,/E poi disse: – I Pievesi sono di buona pasta,/Non fanno fatica a perdonare;/Se al nostro arrivo ci facevate buona cera,/Forse vi avremmo strigliati con più maniera).

Dopo quella del 1901, I Pivís a Massumadegh ha conosciuto altre tre edizioni: nel 1927 a Bologna, nel 1958 a Roma e, finalmente, nel 1982 nella sua Pieve, grazie alla Famaia Piveisa. Mons. Angelo Leone Gessi divenne in seguito celebre per la sua azione riformatrice della musica sacra, ma a Pieve di Cento, per decenni, è stato quasi “sinonimo” del suo poemetto che, oggi, sta perdendo purtroppo smalto tra le nuove generazioni. La Libera Università di Pieve di Cento e di Castello d’Argile ne ha meritoriamente fatto materia di studio dialettale nei suoi corsi. Spero si faccia ancora in tempo a rinnovarne il ricordo e, soprattutto, la lettura!

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