“Folclore del Basso Bolognese” nelle vecchie poesie di Silvio Veronesi

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Le tradizioni popolari della pianura bolognese tra fede, storia e dialetto

Di Gian Paolo Borghi

(pubblicato nel numero uscito nell’autunno del 2016)

All’inizio degli anni ’40 del secolo scorso, nella tipografia milanese di Giordano Prolo viene data alle stampe un’interessante e singolare raccolta poetica che ha come protagonista il Folclore  del Basso Bolognese. Ne è autore Silvio Veronesi, residente a Milano ma originario di Castello d’Argile. Il volumetto, in versi italiani, conosce almeno due edizioni (io ho potuto consultare la seconda, datata 1942).

Dalle bibliografie on line si apprende che al Poeta si devono altri libri, sempre realizzati, tranne l’ultimo, dalla Tipografia Prolo. Questi sono i titoli di sue opere, ma è quasi scontato come la prima raccolta sia stata preceduta da un’altra che non ho purtroppo rintracciare: Nuovi Versi (1941), Versi (1942 e 1947), Guida breve d’Italia in versi (1947) e, forse il suo canto del cigno, A specchio dell’azzurro. Poesie. 1897-1954, silloge edita dalla nota casa milanese Gastaldi.

Torno al libro sul folklore della nostra pianura, che vede al centro dei pensieri dell’Autore Castello d’Argile, il paese natale. Ispirato al mondo delle tradizioni, si apprezza anche come testimonianza etnografica: descrive, infatti, le feste del calendario contadino, da Capodanno a Natale, passando per l’Epifania, il Carnevale, la Mezza Quaresima, la Settimana Santa, la Fiera della Madonna del Carmine, le feste dei Giovani e della Madonna del Rosario. Il Poeta conclude la sua fatica con un omaggio in versi al suo paese e con la descrizione dei matrimoni di un tempo, quelli tradizionali tra giovani e quelli, un po’ meno usuali, tra vedovi. La sua poesia è semplice e gradevole, con versi brevi, incalzanti e con una ricerca accurata della rima. Ne è un esempio Mezza Quaresima, che svela una tradizione ormai scomparsa, ben poco affrontata negli studi sulla cultura popolare della “Bassa”: l’antico rito propiziatorio del rogo del fantoccio raffigurante la Vecchia, preceduto dal suo “testamento”, che metteva in piazza vizi individuali e collettivi, in una sorta di confessione liberatoria, non sempre bene accettata da chi cadeva sotto le grinfie dell’estensore.

Per guadagnare spazio, propongo le strofe di questa e delle due successive poesie (si tratta di stralci di testi più ampi):

Il folto pubblico seguìa contento/le strofe ironiche del testamento//E giunto al termine/Della concione/Esplose unanime/In ovazione//Dopo iniziavasi/La distruttrice/Irruente opera/per l’infelice//Ecco in un attimo/L’idol d’un giorno/Presto dissolversi/Come in un forno//In mezzo a vivide/Fiamme abbaglianti/Mentre scoppiettano/Razzi tonanti.//Allo spettacolo/Tutta la piazza/Ride frenetica/Grida, schiamazza.

 La tradizione imponeva che il Giovedì e il Venerdì Santo non si suonassero le campane (venivano simbolicamente legate), in segno di lutto per la morte di Cristo. Per scandire il tempo (mezzogiorno, ora dell’Ave Maria ecc.) o come richiamo per le funzioni, in loro sostituzione si faceva uso della bâtla (o sgarabâtla, carabattola), uno strumento portatile manovrato in genere dal campanaro, al quale si affiancavano ragazzi vocianti e divertiti con altri congegni di strepito, le raganelle o ranelle. Così descrive queste scene Silvio Veronesi ne La Settimana Santa:

Il paese incomincia/Al giovedì soltanto/Calmo l’aspetto a prendere/Del periodo santo/Allor che il cielo s’apre/Delle funzioni sacre.//Il segnal più tangibile/È dato a mezzogiorno/Allor che più non sentesi/Delle campane intorno/Il suon per annunciare/L’ora del desinare.//Invece questo annunzio/Lo dà il campanaro/In un modo assai semplice/Più unico che raro:/Agitando ove passa/La batla, robusta assa//Con attaccate lamine/Ferrate ed oscillanti/Che sbatacchiando mandano/Colpi secchi, assordanti/E son per tutti il segno/Dell’ora del convegno,//Mentre i ragazzi in circolo/Lieti fan roteare/Le ranelle che imitano/Delle rane il vociare./Allo strano concerto/tutti escono all’aperto.

Chiudo questo ricordo dell’autore con alcune strofe su un rituale un tempo praticato per i Matrimoni tra vedovi: la maitinê (in Francia, charivari). Ossessivamente attuato con strumenti più o meno ortodossi (non mancavano anche pentole e coperchi battuti con i bastoni o gli uni contro gli altri), in genere la sera, aveva termine soltanto se i “suonatori” venivano bonariamente invitati in casa per uno spuntino e per più o meno abbondanti libagioni (il suono, in origine, si diceva avesse la funzione di placare lo spirito del coniuge defunto):

Davanti all’umile/Abitazione/Svolge la tipica/Dimostrazione.//Tutti si tengono/Ben stretto in mano/Uno qualsiasi/Oggetto strano.//Perché ripensano/Che tutto è buono/Alfin d’accrescere/Il gran frastuono.

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