Finalmente l’estate, ma che fatica

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La saggezza della cultura contadina nei proverbi di una vola

di Adriano Simoncini

L’estate dell’odierna società dei consumi è la stagione delle vacanze: sole, mare, montagna, isole di sogno in lontani oceani – o quanto meno lo è nell’immaginario collettivo, che una pubblicità senza ripensamenti quotidianamente accarezza.
Per contro, l’estate del mondo contadino era la stagione delle fatiche da bur a bur, da buio a buio: falciare il fieno, mietere il grano, trebbiarlo (ma noi si diceva bàter, battere, perché per millenni le spighe si erano appunto battute con la zércia o con la préda), arare coi buoi, vendemmiare…
Ci s’alzava all’alba per profittare della prima luce e del fresco, ci si riposava il momento della bóima, dell’afa del sole allo zenit, e si riprendeva il lavoro fino al calare della sera, quando dal campanile del borgo rintoccava l’avmaréia, l’avemaria, a ricordare che la giornata degli uomini di buona volontà era conclusa:

quent e sòna l’avmaréia
chi an è a cà l’è per la véia
quando suona l’avemaria
chi non è a casa è per la via.

Cena, niente recita del rosario, come d’obbligo fino a maggio – al più qualche frettoloso pater ave gloria e un requiem per i morti della famiglia – niente veglie nelle stalle o solo due chiacchiere nell’aia imbiancata dalla luna, e a letto, a dormire un sonno senza sogni, perché l’alba non era lontana (al tempo dell’aratura e bióic, il bovaro, alle tre di notte era già nella stalla a governare le bestie da tiro…) Di fatto, nell’economia contadina l’estate, la stagione cioè del bel tempo e del lavoro nei campi, cominciava con la fienagione di maggio e terminava con la vendemmia e la semina d’ottobre.
L’estate astronomica inizia invece col solstizio di giugno, che la Chiesa festeggiava nel nome di San Giovanni Battista appunto il 24 giugno – e il calendario liturgico ancora gli dedica il giorno, anche se si è persa memoria del motivo. La data e il Santo infatti non sono casuali: Giovanni fu il precursore di Cristo, mentre la data coincide grosso modo col solstizio d’estate (il calendario giuliano era meno preciso dell’attuale), cioè col momento in cui il sole è più alto nel cielo a esprimere tutto il suo empito. Tempo celebrato da sempre nelle culture precristiane con accensione di fuochi notturni, danze in cerchio, canti e processioni nei campi: riti animistici nati con l’homo sapiens e dunque radicati in un panico senso del sacro divenuto quasi istintivo. Che la nuova religione non poteva facilmente rimuovere: preferì la più facile via di rivestire di cristianità ricorrenze e culti pagani.
Tant’é che ancora oggi qualche anziana signora, richiesta da pazienti che la scienza medica non sa guarire, ripete un rituale magico-religioso la cui origine affonda nella notte dei tempi e che era pratica diffusa nella nostra montagna fino al crepuscolo della civiltà contadina: la lavanda, o sendà, con l’erba della paura o erba di San Giovanni. Trattasi di un lavaggio simbolico compiuto con un decotto preparato con la Stachys recta, da noi anche èrba ed la pòra, erba della paura. Che va appunto raccolta, ancora bagnata di rugiada, all’alba del 24 giugno (o anche il giorno precedente, ma l’à d’avanzér a la guaza de 24, ma deve rimanere esposta alla rugiada del 24) e conservata per il momento del bisogno. Il quale sopraggiungeva quando qualcuno, avendo patito un grosso spavento, sbiancava e smagriva per angosce non dominabili. E come Giovanni lavò simbolicamente Gesù con l’acqua nel primo battesimo, così nel sendà contadino si lavava ritualmente il sofferente con l’acqua dell’erba del Santo.
Ma l’inverno, se pur lontano, era in agguato e bisognava premunirsi. Il proverbio ammoniva:

la premma aqua d’agòst
e povr òm l’arcgnòs:
cus et fat st’estè
ct’an te visté e calzè ?
la prima acqua d’agosto
il povero uomo lo riconosce:
cos’hai fatto quest’estate
che non ti sei vestito e calzato?

Articolo pubblicato nel numero dell’estate 2010

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