Erano in sette a bere un uovo

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La saggezza della cultura contadina nei proverbi di una volta

di Adriano Simoncini

(pubblicato nel numero uscito nell’estate del 2015)

L’estate è oggi per molti la stagione delle vacanze al mare, ancora sessant’anni fa era invece per i contadini – in montagna la maggioranza della popolazione – una stagione di duro lavoro da bur a bur / da buio a buio: fienagione, mietitura, aratura… Mangiavano sì accucciati nei campi, ma per ristorarsi dalle fatiche – e attendevano impazienti l’arzdra con la paniera una volta tanto riempita senza parsimonia. Per il resto dell’anno appetito e fame erano stimoli abituali mai soddisfatti appieno. Ridendo amaro si diceva che a pranzo o a cena                                                                                      

ai éren in sèt a ber un óv                                                                          

e a cla vecia adòp a l’óss

ai tuché d’alchèr e gós

eravamo in sette a bere un uovo

e a quella vecchia dietro l’uscio

le toccò leccare il guscio.

Le famiglie d’un tempo erano infatti numerose e comprendevano adulti, bambini, anziani, tutti affamati.

Il pane fatto in casa una volta la settimana si mangiava con le noci, con la cipolla e spesso col companatico della filosofia. Lo attesta il detto consolatorio:

e pen sót                                                                    

e fa ben a tót                                                               

il pane asciutto

fa bene a tutti.

La polenta gialla era cibo quotidiano, con o senza e bagnquel / l’umido di pomodori, fagioli e patate, o magari, per insaporirla almeno un poco, con l’irridente aringa appesa con lo spago al soffitto. E buona che era:

la pulenda ed furmentón                              

la se mesda co un bastón                                       

la se sforna in tei tulér                                               

l’è un magner da cavalér                                            

la polenta di frumentone (mais )

la si mescola con un bastone

la si sforna nel tagliere

è un mangiare da cavaliere.

Rimaneva tuttavia il desiderio raramente soddisfatto ed fer un nòz strangòz    / di fare un pranzo di nozze da strangolarsi – nella cultura contadina il ‘nozzo’ era la tavolata da crapula esemplare. Ma se capitava di sedere a quella tavola, si raccomandava al ventre d’essere accogliente oltre ogni prudenza:

penza méia fa capana                                             

piutost scupièr che i n’armagna                               

pancia mia fa capanna

piuttosto scoppiare che ne rimanga,

di cibo – nella capanna i contadini riponevano di tutto fino a riempirla. Ma attenti, di cibo in tegnen pió i oc’ che la penza / ne contengono più gli occhi che la pancia; l’ingordigia cioè è sempre superiore alle possibilità di capienza dello stomaco. L’ingordo manifesto tuttavia veniva irriso con la domanda spregiosa: ingòiet a oca? / ingoi come le oche? Cioè senza masticare, per la fretta, la fame e il timore che non ce ne sia abbastanza per tutti – le oche, è noto, non hanno i denti e appunto ingoiano il cibo per intero. Ai mangiatori assatanati anche si rammentava che a la galènna ingórda i scupiét e gôs / alla gallina ingorda scoppiò il gozzo. Ma il più delle volte erano ammonimenti rivolti ai ragazzi per giustificare una tavola troppo parca di necessità.

Concludiamo con un noto proverbio dietetico che ammoniva di nutrirsi con almeno un alimento ‘sostanzioso’ (oggi diremmo ricco di proteine), che desse forza:

da tevla an t’livér mai                                                                          

fin che la bocca l’an sa ed furmài

da tavola non t’alzare mai

fin che la bocca non sa di formaggio.

Di carne infatti ne se poteva mangiare poca, mentre il formaggio, con le mucche nella stalla, non mancava (e dicevano fosse anche afrodisiaco…)

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