La saggezza della cultura contadina nei proverbi di una volta
Di Adriano Simoncini
(articolo pubblicato nel numero uscito nell’inverno 2017)
La montagna d’un tempo era un mondo dove ognuno, uomo o animale, doveva innanzi tutto darsi da fare per mangiare. La lotta per sopravvivere coinvolgeva anche le bestiole più minuscole che vivevano attorno o dentro casa: pidocchi pulci cimici zecche mosche mosconi tafani ragni zanzare scorpioni… Un’arca di Noè che cresceva e moltiplicava fra il letamaio, la stalla, il pollaio in mezzo a buoi vacche pecore galline cani gatti maiali conigli…
Invadevano innumeri cucina camere soffitta, lo stesso corpo dell’uomo. Tratteremo qui, fra gli insetti sopra nominati, del pidocchio. Il quale era considerato insetto particolarmente spregevole perché sceglieva a sua dimora e pascolo addirittura la testa di maschi e femmine, grandi e piccoli. Tant’è che si diceva al nuovo ricco rimasto misero nei modi o a chi presumeva di sé più di quanto non valesse:
t’um pèr un bdoc’ arfat
mi sembri un pidocchio rifatto.
Nonostante si affermasse per confortarsi reciprocamente che
chi à di bdoc’ l’è sén
chi ha dei pidocchi è sano, perché si nutriva del sangue umano scegliendo il meglio, le madri cercavano in ogni maniera di liberare i figli dalla loro schifosa presenza. E gli lavavano i capelli con acqua e aceto e li pettinavano di continuo alla ricerca delle uova, le lendini, che bisognava schiacciare fra le unghie una per una per evitare che si moltiplicassero di nuovo. Ai ragazzi riluttanti all’acqua e al pettine si raccontava la favola paurosa di una bambina cattiva che non voleva lasciarsi pettinare. I pidocchi le crebbero a migliaia sul capo tanto che un giorno la trascinarono via di casa, in lunga fila per i capelli, dentro la loro tana. Ascoltata la favola non v’era bambino che non consegnasse docile la testa alla pettinina, un pettine speciale breve e fitto a doppia fila di denti.
Ah! la petnina
la va sό voita
la vén zò pina…
Ah! la pettinina
va su vuota
viene giù piena…
Declamava mostrandola, compiaciuto e invitante, un tale Cheren Cativa / Carne Cattiva, un omone che la vendeva alle fiere assieme ad altri oggetti d’osso.
La pettinina, comunque, era attrezzo utile a tutta la famiglia e presente in ogni casa. Accanto al fuoco, la si infilava fra i capelli muovendola dall’alto verso il basso in modo che gli eventuali ospiti cadessero a bruciare. Per la loro minutezza nemmeno se ne avvertiva lo sfrigolio, tanto che si affermava di evento di breve o nessuna durata:
e dura quent un bdoc’ in vetta a onna bresa
dura quanto un pidocchio sopra una brace, cioè niente.
Tuttavia – da non credere – l’itterizia da noi, ancora ai primi anni del ‘900 e più, si cercava di guarire coi pidocchi. E c’era la gara fra i ragazzi a chi portava i propri all’ammalato, che li ricompensava con una monetina (conosco nome e cognome di chi l’ha fatto). I pidocchi venivano avvolti, vivi, dentro un’ostia che il malato di ittero trangugiava a occhi chiusi. Le bestioline, pur schifose solo a vedersi, avrebbero dovuto succhiare il sangue infetto dall’interno, uscendo fameliche dall’ostia nello stomaco, liberando così il sofferente dalla malattia. Spariti i pidocchi nel dopoguerra con la polvere del ddt portata dagli Americani, so di uno che in Pian di Macina corse al vicino campo di zingari per chiederne – pregiudizi duri a morire – e fu rincorso coi bastoni. (Riassunto da “Il tempo delle favole” di A. Simoncini e M. Bacci – vedi copertina accanto)