A metà Ottocento un morbo giunto con le nuove vie di trasporto e commercio si insediò nella natura insalubre del sistema idraulico cittadino. Nel 1855 la città contò quattro mila vittime
Francesco Nigro – Vitruvio
Tanti sono stati gli eventi che hanno lasciato un segno nella storia della città. Fra questi, le “pestilenze” occupano un ruolo non indifferente, avendo scritto intere pagine di un passato tragico, accompagnate spesso da memorabili nuovi esordi, innovazioni, immortali opere artistiche ispirate dalla morte e nel segno della speranza nella rinascita.
A Bologna anche quella stessa acqua così faticosamente guadagnata nei secoli, indispensabile per gli usi civili più elementari, anima della produzione e del commercio, in sostanza linfa vitale di un agglomerato urbano evolutosi attorno ad essa, nascondeva diverse minacce per la pubblica salute. Eppure, mai, all’insorgere del “nuovo male”, si sarebbe pensato che in quell’elemento si sarebbe dovuta ricercare la causa della più pesante serie di eventi epidemici che avrebbero messo a ferro e fuoco Bologna nell’ottocento: il colera. Una città decimata da quanto non riusciva ancora a comprendere, in un’epoca in cui la medicina doveva ancora uscire da schemi mentali del passato, acerba di conoscenze in campo microbiologico. Il colera era noto come “Morbo Asiatico”, il male venuto dell’oriente, frutto di commerci ed affari, maledizione per chi l’incriminata India non sapeva nemmeno dove fosse. Un morbo con effetti disastrosi e recrudescenze assicurate, giunto con le nuove vie di trasporto e commercio che, invece dell’acqua, usavano il ferro e che si sarebbe insediato nella natura insalubre del sistema idraulico cittadino. I primi casi registrati si ebbero fra braccianti della Bertalia, fra fiume Reno e Canaletta della Ghisiliera, nella zona delle Borre. Il “Cholera asiatico” non si fermò, mietendo migliaia di vittime. Solo nel 1855, anno nero per la città, si sarebbero superati i quattromila decessi fra Bologna e circondario (Le Infezioni in Medicina, n. 4, 233-248, 1998), toccando i dodicimila nella provincia, con un’ovvia maggiore intensità nel periodo estivo quando le acque scarseggiavano e i reflui caldi si concentravano. Una città a lutto, dove alla morte si univa l’angoscia dell’incertezza della stessa, con stati di morte apparente che scalfivano i nervi distrutti di chi non era pronto a lasciare i propri cari ad una dubbia e frettolosa sepoltura.
Un batterio, un vibrione, quello del colera, che si trasmette per via oro-fecale, in una città che vantava una scuola idraulica di tutto rispetto, un passato fatto di famiglie consorziate per la gestione di opere mai viste in Europa, come la Chiusa di Casalecchio, emanazioni pontificie settecentesche del calibro della Sacra Congregazione delle Acque, fior fiore di accademici, fisici, ingegneri, ma che non aveva un valido sistema fognario e neppure un altrettanto valido acquedotto che sopperisse ai bisogni della popolazione. All’utilizzo improprio e promiscuo di acque fetide per l’igiene e per usi alimentari si univa un problema assai più grande centinaia gli scarichi che disperdevano direttamente nel terreno e altrettanti nei canali cittadini. Una falda abusata che avrebbe portato la città al collasso, costringendola a nuove coraggiose scelte politiche. Saranno più di quattrocentocinquanta i pozzi chiusi a inizio novecento e un enorme lavoro sulle latrine farà seguito alla vera svolta: un acquedotto moderno per Bologna.
Già nel 1881, l’ingegnere comunale Antonio Zannoni era riuscito in un’impresa unica nel suo genere, portare l’acqua dalla Val di Setta a Bologna, un getto imponente di fronte a San Petronio, frutto di un duro lavoro in cui si condensavano le speranza di una città pronta a ripartire, ma dal passato. Ebbene sì, l’acquedotto moderno riutilizzava e riadattava il percorso del riscoperto cunicolo romano, con i suoi diciotto chilometri. Quella stessa incredibile condotta sotterranea che riforniva una Bononia del primo secolo era ed è tuttora attiva, rimessa al servizio della popolazione. Mentre acqua nuova sgorgava in un cunicolo, all’epoca del tutto ispezionabile, di una sessantina di centimetri di larghezza per più di diciotto chilometri, fra le valli intagliate di Aposa, Ravone, Fossaccia e Setta, gli affacci urbani dominati dai canali sparivano, cancellati nel nome della pubblica salute, ridotti a sotterranei calcati ogni giorno dai piedi di migliaia di persone. Intanto, nel dialetto bolognese si creavano nuovi detti e non era raro, fino a qualche tempo fa, essere apostrofati con un “t’um pér un colera” se mostravi una brutta cera.
Solo poche righe di quanto si può scoprire fra vie e canali che parlano a chi a voglia di ascoltarli, una miriade di storie che animano da anni i nostri Black-Trek, trekking urbani alla scoperta di un’altra faccia di Bologna.