Dal neolitico all’Ottocento, la storia nascosta negli archivi della valle del Savena nel racconto pubblicato a puntate su Nelle Valli Bolognesi della primavera e dell’estate 2019
Testi e foto di Giuseppe Rivalta
(Parco Museale della Val di Zena – GSB/USB)
Il nostro Appennino Bolognese è un territorio incredibilmente ricco di elementi naturalistici e storici che spesso restano confinati in polverosi archivi, ma che devono assolutamente essere conosciuti e riscoperti. La frazione monzunese di Brento è proprio uno di questi.
Geograficamente la località è situata sulle pendici di Monte Adone e si affaccia sulla Valle del Savena. La morfologia di questa parte del serpeggiante Contrafforte Pliocenico è stato forse l’elemento che ha fatto di Brento un luogo molto conosciuto fin dall’Età del Bronzo e forse anche dal più antico Neolitico. Anche nell’Età del Ferro (in epoca Etrusca) la zona è stata frequentata e non è un caso che più tardi i Romani l’abbiano utilizzata come presidio militare lungo la Via Claudia (o Flaminia Militare).
Questa direttrice, partendo da Bologna, a Iola (sopra Rastignano) entrava nella Valle del Savena. Poco più a sud, passava sul territorio dell’attuale Pianoro e saliva fin sotto Monte Adone arrivando, appunto, a Brento. Da lassù lasciava la Valle del Savena e s’indirizzava verso il crinale dirigendosi nella valle del Sambro.
È plausibile supporre che, come è accaduto in altri casi, la strada romana non facesse altro che utilizzare i più antichi percorsi etruschi. Per i romani era conosciuto come Castrum Brintum. Il Castrum era il nome che veniva dato a quei luoghi che erano occupati, in forma stabile o provvisoria, dall’esercito romano anche con una sola legione. La forma di un insediamento fortificato era per lo più rettangolare e, dove il terreno lo consentiva, attorno veniva protetto anche da un fossato oltre che da robuste palizzate. In ogni caso l’aspetto della zona difensiva dipendeva dal terreno, in particolare se in montagna. A Brento, tra il 1986 e 1989, gli archeologi del Circolo Culturale Esagono di Bologna, eseguirono approfondite ricerche, sotto il controllo dell’allora Soprintendente delle Antichità della nostra Regione, Giovanna Bermond Montanari.
Sul dosso roccioso che si protende a picco sulla Valle del Savena furono rinvenuti i basamenti di tre torri romane. Da quella posizione era, infatti, possibile controllare un lungo tratto della valle da Nord a Sud e quindi, se fosse stato necessario, intervenire con grande rapidità. Oggi purtroppo, con gli anni, queste importantissime testimonianze archeologiche e storiche sono state ricoperte dalla vegetazione arbustiva e prativa. Fortunatamente però il lavoro eseguito oltre trent’anni fa, dagli archeologi bolognesi, è testimoniato da numerose fotografie. I basamenti delle torri erano in opus quadratum. Questa tecnica costruttiva, della Roma antica, consisteva nella sovrapposizione di blocchi squadrati con altezza uniforme e posizionati in filari con piani di appoggio continui. Nel nostro caso erano stati consolidati con una malta bianca. Poco dopo il ponte che attraversa il Savena (costruito su un manufatto forse romano e distrutto dai lavori di cava), sulla fondovalle, vennero alla luce anche lunghi tratti della strada romana che saliva a Brento.
Numerosi basolati sono ancora sepolti sotto appena una trentina di centimetri di suolo agricolo. Furono evidenziati anche altri tratti con evidenti massi squadrati, alcuni selciati a schiena d’asino, ascrivibili all’epoca romana con tuttavia rimaneggiamenti avvenuti in epoche successive.
Un percorso in salita sotto alla rupe su cui c’è Brento, mostra, sulla strada, solchi che ricordano una carreggiata incisa nella arenaria.
MEDIOEVO
L’epoca Medievale ha visto Brento spesso al centro di complesse vicende politiche. Prima dell’anno 1000, questo era il centro principale di un’enclave che dipendeva da Modena. Solo nel 1078 riuscì a sottrarsi all’influenza modenese. Questo avvenne poiché la potente Matilde di Canossa (che era contessa di Modena) donò, all’ Arcivescovo di Pisa, alcune corti che rientravano nel comprensorio della Pieve di Barbarolo oltre a vantare diritti sulla Pieve di Santa Maria di Zena, di Burdignano ecc.
Tuttavia, su queste località, la Chiesa pisana non riuscì mai ad averne il dominio sia per la lontananza che per l’Appennino da attraversare. Più tardi Brento, Badolo e Battedizzo, forse per donazione matildica, divennero di proprietà del Vescovo di Bologna che li governò tramite i suoi vassalli. Ma nel 1174 Badolo e Battedizzo si assogettarono al comune di Bologna come fece verosimilmente anche Brento. Nel 1268 il vescovo di Bologna, della famiglia Ubaldini, concesse a Castellano degli Andalò (importante famiglia bolognese) in usufrutto Brento, e dintorni, Appena sei anni dopo, durante le numerose lotte civili per il predominio dei territori bolognesi, Castellano (della fazione ghibellina) fu catturato e messo in carcere dove morì poco dopo. Il figlio, successivamente nel 1298, entrato di nuovo in possesso dei beni sequestrati, donò alle suore di San Francesco, il castello di Brento che poi, alla metà del 1300, fu raso al suolo per le solite lotte di potere.
Brento ed il sovrastante Monte Adone, furono luoghi già frequentati in preistoria ed in particolare nell’Età del Bronzo (sono state ritrovate asce, punte di freccia e altri reperti). Dai documenti antichi risulta che, sulla cima della collina rocciosa, fin dal VI° secolo d.C., esistesse un abitato: il Castrum Brintum (Castello di Brento o Castellazzo) quasi certamente di origini ben più precedenti. Addirittura Giorgio Ciprio (geografo bizantino del settimo secolo d.C. che aveva descritto l’Impero Romano in un suo libro) incredibilmente pone Brento tra i luoghi più importanti della romanità del tempo. Occorre ribadire che questa località era, come già affermato, esattamente sul percorso viario romano di Età Imperiale.
Proprio sulla direttrice della strada romana, sotto al balzo detto del “castello di Brento”, la chiesa e convento di Sant’Ansano affonda le sue origini verso la fine del 1200. Molte informazioni si possono ritrovare nell’imponente lavoro di ricerca storica redatto da Luigi Fantini. Come risulta da un documento datato 16 luglio 1293, il vescovo Ubaldini cedette ai Padri Serviti questa struttura, previa approvazione del Consiglio comunale di Bologna e del signore di Loiano. A lato della chiesa esisteva un oratorio (con funzione devozionale per ex voto che erano presenti come bastoni e stampelle). Forse questo era stato il primo edificio accanto a cui venne successivamente edificata la chiesa e relativo convento. Quando, nel 1652, il Papa Innocenzo X fece chiudere tutti i piccoli monasteri, i Servi di Maria l’abbandonarono e furono sostituiti da un prete “secolare” cioè non vincolato dalla ”regola religiosa”. Serafino Calindri, nel suo Dizionario del 1781, scrisse che i conci di arenaria dell’edificio di Sant’Ansano, ormai abbandonato e in rovina , furono trasportati a Scascoli per completare la facciata della chiesa omonima.
Il luogo prescelto per Sant’Ansano era legato ad una suggestiva leggenda antica secondo la quale, mentre un contadino lavorava il campo sopra al balzo, i buoi e l’aratro precipitarono sotto. Invocando l’aiuto di Sant’Ansano, quando scese trovò i buoi ancora sani, senza ossa rotte e promise di donare alla Chiesa uno di quegli animali “miracolati”. Non lontano da questo luogo Fantini parla dell’esistenza di una piccola grotta che la tradizione attribuiva all’eremita Sant’Ansano protettore delle fratture delle ossa. In realtà questa pia persona era nata a Siena. Morendo martirizzato divenne il patrono della città toscana. Purtroppo verso la fine della seconda guerra mondiale le bombe aeree alleate, fatte cadere per colpire le postazioni tedesche, distrussero completamente chiesa, convento ed il piccolo cimitero, tutti edifici che miracolosamente fino a pochi anni prima erano riusciti a sopravvivere anche alle grandi frane di massi dalla sovrastante parete.
Appena fuori da Brento, viveva la famiglia Negroni che, dalla metà del 1700 fino all’inizio dell’Ottocento, aveva creato un’officina in cui si costruivano eccellenti armi, in competizione con quelle, forse più famose, degli Acquafresca di Bargi. Archibugi e pistole finemente decorati divennero ben presto famosi e non solo nel nostro territorio. Purtroppo come sempre accade queste armi, a pietra focaia, furono sorpassate dalla concorrenza francese che all’inizio del XIX° secolo entrò nei mercati italiani. Così da produttori di archibugi divennero dei mugnai, produttori di farine, lavorate in un mulino situato vicino a Sant’ Ansano. I Negroni di Cà Mazza di Brento, nell’ambiente degli studiosi da armi antiche, sono considerati produttori di armamenti di grande livello sia tecnico che per le raffinate decorazioni.
Oggi della chiesa e convento di Sant’Ansano di Brento e del Castellazzo restano solo muri sgretolati e diventati quasi invisibili per i cespugli di rovo e le piante infestanti. Così pure si può dire delle tre torri romane, a picco sulla valle, ricoperte da una trentina di centimetri di erba, dopo che gli archeologi, negli anni ’80 del passato secolo, ne avevano riportato alla luce le basi ed i muri perimetrali. La strada romana è in certi tratti franata. Distrutto e cementato è il ponte romano che attraversava il Savena per salire a Brento.
Credo che qualcosa sia necessario fare, almeno per riscoprire alcune tracce di questo luogo antichissimo dove il tempo e l’Uomo si sono accaniti per secoli per cancellarlo dalla Storia. Per dirla con il grande Luigi Fantini: “Sic transit…”