La storia (e le immancabili polemiche) dei monumenti della città, da Ugo Bassi che indica Roma al peregrinare di San Petronio
di Serena Bersani
Che cosa indica il braccio di Ugo Bassi? Perché Minghetti tiene il cappello in mano? Lo scopriremo quando Galvani volterà pagina, cioè mai. Perché Ugo Bassi, Minghetti e Galvani sono solo statue che troneggiano negli spazi urbani a loro dedicati in città. Ma, se si stilasse una classifica dei temi che più attirano le polemiche e le considerazioni oziose dei nullafacenti con molto tempo libero nella città degli umarell, le critiche sull’ideazione, la realizzazione e la collocazione di statue sarebbero seconde forse soltanto ai cantieri stradali e alle questioni legate alla mobilità.
E certo non da oggi. Prendiamo la statua di San Petronio, costretta a continue peregrinazioni tra la basilica a lui dedicata e piazza Ravegnana, di fronte al palazzo degli Strazzaroli dove aveva sede l’Arte dei Drappieri che, nel 1683, la commissionò allo scultore Gabriele Brunelli. Rimase sotto le torri fino al 1871 poi, per i problemi di traffico e viabilità che si manifestavano già allora, venne spostata in una cappella dell’omonima basilica. Soltanto all’inizio del nuovo millennio, nel 2001, il sindaco Guazzaloca ottenne di ricollocarla nel luogo per il quale era nata e dove rimase fino 2022 quando, per esigenze di restauro dopo oltre vent’anni di esposizione allo smog, fu portata di nuovo al riparo nella basilica di piazza Maggiore. Appena in tempo, prima che si scoprisse la “malattia” della Garisenda, il cui scongiurabile crollo avrebbe potuto abbattere due simboli della città in un colpo solo.
Ma oltre alla statua del vero San Petronio, abbiamo anche quella finta, quella di un papa costretto al travestimento da santo patrono per evitare che su di essa si abbattesse la furia anticlericale dei francesi durante la calata in Italia dell’esercito napoleonico nel 1796. Sopra il portale di Palazzo D’Accursio campeggiava infatti, dal 1580, la statua bronzea realizzata da Alessandro Menganti di papa Gregorio XIII, al secolo il bolognese Ugo Boncompagni, passato alla storia per la riforma del calendario. Con le truppe francesi ormai alle porte, i bolognesi fecero realizzare in fretta e furia una mitia e un pastorale vescovili in sostituzione della tiara papale e una nuova lapide, in sostituzione di quella dedicata al Boncompagni, recante la scritta “Divus Petronius Protector e Pater”. Le truppe napoleoniche caddero nel tranello e non osarono toccare quello che era considerato un simbolo della città. Solo un secolo dopo, nel 1895, si pensò di riportare sulla statua i corretti attributi, dimenticando però di sostituire l’epigrafe che lascia così in parte aperto l’equivoco.
Poi ci sono statue perdute, vittime della furia iconoclasta di chi riprende il potere dopo essere stato esautorato, come nel caso della grande statua in bronzo commissionata nel 1506 da papa Giulio II nientemeno che a Michelangelo, come attesta una lapide collocata in piazza Galvani. 3, per celebrare la ripresa della città da parte del papato che aveva sconfitto i Bentivoglio. Il bronzo, materiale insolito per Michelangelo, anzi un unicum perché non lo utilizzò mai più, pare derivasse dalla fusione della campana dello splendido palazzo Bentivoglio di via Zamboni raso al suolo dalla popolazione infuriata dopo la cacciata di Giovanni II. Potere dei simboli, con un contrappasso avvenuto nel 1511 quando il figlio di Giovanni II, Annibale II, riuscì per breve tempo a riprendere il potere sulla città. La statua, collocata sulla facciata di San Petronio, venne abbattuta e il Bentivoglio vendette il bronzo a suo cognato Alfonso D’Este che lo utilizzò per costruire il più grande cannone a mano dell’epoca. Insomma, da campana divenne effigie di un papa e, infine, arma da guerra.
A Bologna abbiamo anche statue fatte con materiale riciclato. E mai nemesi storica fu tanto efficace come l’utilizzo da parte dello scultore Luciano Minguzzi per le due statue di partigiani collocate a Porta Lame in ricordo della più importante battaglia avvenuta in città durante la seconda guerra mondiale tra nazifascisti e resistenti, il 7 novembre 1944, di parte del bronzo ricavato dalla fusione della statua equestre di Mussolini collocata all’interno dello stadio comunale, in una nicchia della torre di Maratona, distrutta dopo la Liberazione.
Una delle statue più criticate, fin da quando venne scoperta l’8 agosto 1888 in via Indipendenza di fronte all’Arena del Sole (dove oggi troneggia il monumento equestre di Garibaldi), è proprio quella dell’ex frate barnabita martire del Risorgimento Ugo Bassi. Realizzata in bronzo dallo scultore Carlo Parmeggiani, non piacque ai contemporanei che la ritenevano brutta e per niente somigliante, ravvisandovi piuttosto l’effigie di Garibaldi e Verdi o, addirittura, la forma di un bricco da caffè. Da lì cominciarono le peregrinazioni del monumento di Ugo Bassi: nel 1900 venne spostato dove si trova oggi, in quella che all’epoca si chiamava piazzetta San Gervasio, poi fu danneggiato da un bombardamento aereo nel 1944, venne rimosso e riportato alla luce solo nel 1949 con collocazione in piazza XX Settembre, dove è rimasto per un cinquantennio per essere poi riportato nella collocazione attuale nell’omonima via. Quanto al braccio alzato, su cui si continua a interrogarsi, nelle intenzioni di chi la realizzò doveva indicare la via di Roma, per i garibaldini simbolo dell’unità d’Italia.
Un altro monumento senza pace è quello equestre dedicato a Vittorio Emanuele II, che oggi si trova all’ingresso dei Giardini Margherita. Realizzato anch’essa nel 1888, in occasione dell’ottavo centenario dell’Alma Mater, venne criticato ancora in fase di bozzetto, tanto che lo scultore Giulio Monteverde fu costretto a rivedere la coda del cavallo. E ancora più polemiche suscitò la scelta della collocazione in Piazza Maggiore, allora dedicata appunto al re, perché non si trovava accordo su quale lato della piazza dovesse guardare il cavallo e su quale rivolgere le terga. Anche la soluzione di collocarla al centro scontentò un certo numero di bolognesi, compreso Carducci, che ritenevano togliesse prospettiva allo spazio perché eccessivamente incombente. A risolvere il caso hanno pensato i ricorsi storici che, con l’avvento della Repubblica Sociale nel 1944, lo esiliarono a Porta Santo Stefano.
Ma se pensate che le polemiche sulle installazioni urbane dedicate a questo o quel personaggio siano solo storie di epoche passate, probabilmente vivete in una bolla in cui non giungono gli echi delle cronache locali. Prendiamo la statua della lavandaia collocata all’angolo tra via Riva Reno e San Felice. Il doveroso omaggio a una categoria di donne (cioè tutte le donne povere della città, che non potevano permettersi personale di servizio) che fino alla benemerita invenzione della lavatrice utilizzavano gli argini dei canali e l’olio di gomito per fare il bucato, realizzato da Saura Sermenghi nel 2001, scatenò subito una ridda di proteste indignate. La lavandaia è infatti rappresentata accovacciata all’interno di una tinozza intenta a lavare, con le terga al vento e per di più nuda. La scultrice spiegò che aveva scelto di mettersi nell’ottica dei tanti umarell dell’epoca che ai cantieri preferivano i canali lungo i quali appostarsi per ammirare il movimento ritmico dei fianchi delle lavandaie, ma la giustificazione non suonò convincente. Sta di fatto che, a dispetto di chi l’avrebbe voluta rimuovere, la statua di via Riva Reno è divenuta un’attrazione cittadina.
Così come una curiosità tutta bolognese e unica nel suo genere è diventato il monumento al camionista collocato nel 2010 al centro della rotonda Gasbarrini, in zona Pioppa a Borgo Panigale, dove sono soliti radunarsi i camionisti prima di uno sciopero o manifestazione. L’installazione dell’artista modenese Andrea Capucci rappresenta un gigantesco uomo in alluminio che porta con disinvoltura sulle spalle un “bisonte della strada”, a sottolineare che è comunque sempre l’uomo a prevalere sul mezzo. Ma anche in questo caso c’è chi ha trovato l’occasione per imbastire una polemica storcendo il naso sul fatto che si esalti il traffico di mezzi pesanti urtando le sensibilità ecologiste.
Meglio è andata alla statua di Lucio Dalla, seduta su una panchina in piazza Cavour (la sua vera Piazza Grande), dove abitò per tanti anni da bambino e in gioventù. Realizzata in bronzo dal giovane artista Antonello Palladino, ritrae il cantautore bolognese in una sua tipica posa con le gambe accavallate e il clarinetto a fianco. Piace a tutti, forse perché è un irresistibile attira-selfie, certo perché è un mito.
E un mito, sia pure sui generis, è ormai anche Roberto Freak Antoni, già frontman degli Skiantos, uno dei più geniali artisti e comunicatori della generazione del Settantasette scomparso da quasi dieci anni, al quale è stata dedicata una statua assai controversa ma del tutto conforme al personaggio. Collocata nel giardino del Cavaticcio, tutta in marmo bianco di Carrara, rappresenta Freak che fuoriesce da un water con uno zainetto a propulsione sulle spalle pronto a proiettarlo nell’infinito dove – siamo certi – continuerà a distribuire “cultura a badilate”, come recita l’epigrafe. Ci piace credere che avrebbe apprezzato.