La saggezza della cultura contadina nei proverbi di una volta
di Adriano Simoncini
(articolo pubblicato nel numero uscito nell’estate 2018)
Um manchèva sémper un sóld a fer un frènc
Mi mancava sempre un soldo per fare un franco.
È il lamento, codificato in espressione proverbiale, della generalità dei montanari. Che di soldi – cioè di moneta, quale ne fosse il conio – non ne avevano mai (tranne i sgnóri / i signori, proprietari di poderi). In effetti era un mondo a economia agricola prevalentemente autarchica: i più consumavano e scambiavano quel che producevano nell’orto, nei campi, nel bosco.
A meglio comprendere, preciso che ancora fino agli anni ’60 per indicare la lira e suoi multipli e sottomultipli, i nati prima dell’ultima guerra usavano nomi di monete pre-unitarie, che non avevano più corso legale. Come ad esempio scud / scudo, con cui s’intendeva una moneta da 5 lire; o frènc / franco, che stava per una lira, mentre per sóld / soldo s’intendevano 5 centesimi di lira. Al nostro lamentante mancavano dunque 5 centesimi per avere una lira, cioè non metteva mai insieme la cifra che gli occorreva per i suoi interessi, quali che fossero.
Per significare 500 lire si diceva invece zent scud / cento scudi, ed era somma anche simbolicamente importante, tanto che un detto recitava:
la cóipa l’à zent scud ed dót ma ansún a la vól
la colpa ha cento scudi di dote ma nessuno la vuole.
In una società dove l’integrità morale era valore riconosciuto e il timore del peccato frenava i comportamenti proibiti dal decalogo religioso – mentre la quotidianità di ciascuno era sotto gli occhi tutti – non c’era prezzo che pagasse l’ammissione di colpa. Il maranghino / e maranghín, invece – diminutivo di marengo, moneta d’oro coniata da Napoleone a ricordo della battaglia vinta a Marengo il 14 giugno 1800 – è rimasto nell’immaginario popolare come metafora di ricchezza mirabolante:
l’arà truvà onna pgnàta ed maranghín d’ór
avrà trovato una pignatta di maranghini d’oro.
Lo si diceva di persona che improvvisamente ostentava grande ricchezza. L’usanza di nascondere tesori di monete e gioie in recipienti di coccio quali le pignatte è asserita dalla tradizione orale e nobilitata da don Abbondio, cui Manzoni fa vanamente nascondere il peculio sotto il fico dell’orto per tema delle ruberie dei lanzichenecchi. Torniamo a e maranghìn. Il fatto di essere d’oro e d’essere la moneta di Napoleone – che da tenentino, addirittura bassetto di statura, era diventato splendido imperatore d’Europa – certo dava al marengo un fascino psicologico superiore al valore reale. Lo si chiamava al diminutivo perché era di piccole dimensioni (valeva comunque 20 franchi), ed era anche per questo di facile conservazione: qualche anno fa una vecchietta del mio paese – la interrogavo sul tempo andato – aprì con fare circospetto una sua cassettina, ne trasse due monetine d’oro e me le mostrò con orgoglio: dù maranghín / due maranghini, mi sussurrò cauta. Erano il lascito di un suo avo che aveva partecipato alla campagna di Russia e n’era tornato.
Per lamentare la propria miseria, invece, il montanaro diceva an ò brisa un baiòc / non ho un baiocco. Che era moneta spicciola di rame di quando Bologna faceva ancora parte dello Stato Pontificio. E si conosce un proverbio meteorologico che recita:
temp arfàt ed nòt an vél un baiòc
tempo rifatto di notte non vale un baiocco.
Se cioè il tempo brutto della sera si rasserenava durante la notte a mostrare e sterlèr, il cielo stellato, non bisognava fidarsi: la mattina sarebbe stato comunque di nuovo brutto. Onde il giudizio impietoso: un sereno temporaneo che non valeva un baiocco, cioè niente. Meglio osservare la busa ed la iacma al tramontare del sole e crederle.