Amore dolce-amaro

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La saggezza della cultura contadina nei proverbi di una volta

di Adriano Simoncini

(articolo pubblicato nel numero uscito nella primavera 2018)

Quando le ragazze erano al pascolo con le mucche o le pecore lungo le pendici di Monte Venere, del Galletto, dell’Alpe, e la primavera intorno stordiva di odori e colori, si chiamavano con la dondina, il canto delle pastore. Per contrastare la solitudine della propria anonima quotidianità, che solo l’attesa dell’amore accendeva di speranza. Perché anche le più ritrose desideravano amare, l’adolescenza essendo un afrodisiaco non resistibile. E dunque a sera, stanche, mentre spremevano il formaggio o mungevano la mucca, lamentavano con la madre:

o comadre, la me cioccia la vol covare! / la mia chioccia vuole covare!

A primavera infatti le pollastre vengono prese dalla cuvaróla, la febbre da cova, e s’accoccolano nel nido per covare le uova che l’arzdóra mette loro sotto per averne poi i pulcini. E la madre, esperta per l’età delle malizie del maschio, ammoniva: ma se la covva, la covva male… / ma se cova, cova male.

Bisognava cioè attendere il giovanotto serio e perbene, possibilmente di buona condizione. Così che accadeva d’udire dalla bocca rassegnata di una sposa non più giovane:

         um son maridà pr’e ben dla pulènda 

         mi sono maritata per il bene della polenta.

Cioè mi sono sposata per poter mangiare, ammettendo crudamente che voleva bene alla polenta – cibo quotidiano dei contadini – più che allo sposo che gliel’assicurava.

Per contro, il pretendente respinto, rancoroso per diniego che lo feriva nell’amor proprio, dava della bella altezzosa un giudizio non appellabile: 

         l’è garbéda comme onna vèra  

         è garbata come una verra.

La ‘verra’ è la femmina del maiale ed è animale iroso e scorbutico da cui è meglio stare alla larga. Magari la giovane aveva risposto a un approccio maldestro con una rima disarmante:  

         a son come Dio a m’à fàt                          

         e dla tó ghégna an fòg brisa baràt  

         sono come Dio m’ha fatto

         e col tuo ghigno non faccio baratto.

Perché all’occorrenza la parola ‘spicca’ non mancava neppure alle ragazze, che pativano l’irrisolvibile conflitto fra le pulsioni del sangue e la cultura sessuofoba della comunità. Imbonite dagli ammonimenti delle madri che temevano per loro conseguenze irreparabili (leggasi gravidanze prematrimoniali), frastornate dalle intimidazioni di predicatori e confessori che minacciavano a chi s’abbandonava alla lussuria anni di purgatorio e addirittura, non sia mai, le fiamme dell’inferno, le giovani donne ne erano imprigionate.

Le ‘signorine’ invece, cioè le figlie dei signori, dovevano sposare bene. Il pretendente doveva possedere terra e denari e buon nome: aspetto, età, carattere non importavano più di tanto. I genitori di entrambe le famiglie combinavano il matrimonio e contrattavano dote e rispettivi obblighi patrimoniali. Con l’intento di non rimetterci troppo, come consigliava il detto che segue ai fratelli della sposa:

         duv i fa la félsa e la farfanèla 

         dala in dót a tó surèla              

         duv i fa e stupión e e guvón             

         tinla té st’an é un cuaión                 

         dove fa la felce e la farfara

         dalla in dote a tua sorella

         dove fa il tarassaco e l’equiseto

         tienila tu se non sei uno sciocco.   

Aggiungo a commento che il tarassaco e l’equiseto crescono su suoli ottimi per il coltivo. Capitava poi che dai contratti matrimoniali uscissero coppie male assortite, da far dire con impietosa metafora, (la religione ispirando): i pèren e Patèr acumpagnè con l’Avmarèia / sembrano il Pater (noster) accompagnato con l’Ave Maria.

 

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