Le streghe della Contea Ranuzzi

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Nei boschi di Pian del Voglio alla scoperta di Mulungagne, Cà d Vez e Fattoria Ranuzzi ricordando le credenze popolari nell’Appennino tra Emilia e Toscana tra lastre che urlano, casolari abbandonati e miracoli mariani

di Claudio Evangelisti

(articolo pubblicato nel numero uscito nell’inverno 2014)

Siamo al confine tra Emilia e Toscana, la guida che ci conduce in questo percorso fra luoghi incantevoli è Augusta, che assieme al socio Leo conduce l’antica locanda della Lanterna a Cà Santoni, in attività dal 1875. Se già il nome della borgata richiama alla memoria guaritori dediti alle arti magiche, è facile immaginare come da queste parti l’influenza dei culti pagani come il Sendà, e i racconti sulla presenza di spiriti e streghe, sia diffusa e condivisa. Nel 1300 il comune di Bologna concesse questo territorio alla famiglia De Bianchi che lo conservò fino al 1800 quando, cessato il feudalesimo, la proprietà passò alla imparentata famiglia dei Ranuzzi dei Bianchi.

 

A MALUNGAGNE

La casa delle streghe a Malungagne come era nel 1986. Oggi è parzialmente crollata.

Augusta ci ha svelato l’esistenza di un rudere in mezzo al bosco delle Malungagne dove dicono che “ù sìnt!”, si sentono, le voci degli spiriti. Per raggiungere questa casa abbandonata, dalla locanda saliamo in direzione val Serena e abbandoniamo la strada principale per addentrarci nella foresta. A Far da guida è Dino, esperto fungaiolo, che ci apre la strada a colpi di “falcetto”. Occorre raggiungere un campo in discesa vicino al torrente, dove comandano daini e cinghiali. In un spiazzo in mezzo alla vegetazione ecco apparire “i Lastrighedi” e subito dopo la casa ormai diroccata.

I Lastrighedi

La leggenda è strettamente legata a queste strane lastre di roccia, dove si narra che le streghe ballassero il sabba. Questa dimora in sasso fu costruita dal padre di due fratelli che la voce popolare racconta fossero nati con “un cervello in due” (evidentemente non erano considerati molto intelligenti). Sia come sia, dopo una notte di tempesta, apparve come per incanto questa spianata formata da lastre di roccia. Da quella notte in poi, quando questa famiglia chiudeva le finestre per ritirasi a dormire, cominciava a tirare un vento fortissimo, le pecore impaurite si rifugiavano nell’ovile e si udivano urla umane terrificanti provenire dai Lastrighedi. La nonna di Augusta raccontava che quando le imposte venivano riaperte per controllare l’esterno della casa, il vento e gli schiamazzi cessavano di colpo per poi ripartire quando venivano richiuse. Andò a finire che la casa nel bosco, venne presto abbandonata e i due fratelli furono trasferiti in un collegio specializzato, di proprietà della curia, a Livorno.

 

A CA’ DEL VEZZO (CÀ D VEZZ)

Il Borgo abbandonato di Cà del Vezzo

Se alle Malungagne si riteneva che le streghe tenessero i loro conciliaboli danzando poi in fantastica tregenda, degna di nota rimane anche la storia sul borgo di Cà del Vezzo. Da Cà Santoni si parte per il sentiero che passa dietro alla Locanda della Lanterna, inerpicandosi per un breve sentiero in salita fino al magnifico altopiano denominato “Le Casette”, che domina Pian del Voglio e le borgate circostanti. Il panorama che guarda verso Montovolo è impagabile. Dopo aver costeggiato i campi di erba medica, usciti da un boschetto appare il piccolo borgo abbandonato di Cà del Vezzo, esattamente sopra il confine tra Emilia e Toscana. Alcune case sono ormai sopraffatte dalla natura, nella stalla sul versante emiliano sono ancora presenti le pareti divisorie, mentre all’interno della casa vicina fa bella mostra di sé una “Pulidora”. Nella stanza adiacente, attraverso una piccola finestra, i raggi del sole rischiarano un vecchio tino, a memoria dell’atavica sete dei montanari impegnati a lavorare i campi. A pochi metri di distanza dal gruppo di case, si erge un’altra stalla situata sul versante toscano, dalla quale nasce la leggenda del fondatore di questa borgata. Proprio qui a Cà del Vezzo, ha vissuto un’antico discendente di Augusta, un signorotto poi diventato fuorilegge, perché responsabile dell’uccisione dell’allora parroco di Veggio. Costui apparteneva alla dinastia dei Pasqui, vero e proprio clan locale formato da un’èlite di proprietari terrieri. Il fattaccio accadde quando esistevano ancora i confini tra Stato Pontificio e Ducato di Toscana: i discendenti dei Pasqui raccontano che il parroco di Veggio aveva concesso la propria sorella in moglie a questo loro avo, che confortato da tale promessa, era partito per una delle tante guerre di allora. Dopo aver dato prova del proprio valore in battaglia, il Pasqui tornò al suo paese, ma venne a sapere che la sua promessa sposa era stata maritata con un altro uomo. Accecato dalla delusione, decise di lavare l’onta affrontando il prete in chiesa, davanti ai fedeli che stavano ricevendo la consueta benedizione. Pasqui esplose un’archibugiata al parroco che stramazzò sull’altare. Fuggì e si diede alla macchia rifugiandosi oltre confine, nel Ducato di Toscana. Proprio sulla linea di questo confine costruì una casa colonica con la stalla posta sul versante bolognese e quindi in territorio pontificio, mentre un’altra stalla la fece costruire nel Ducato di Toscana così come la si può vedere ancora oggi. Dalla cima del monte poteva così controllare eventuali incursioni dei gendarmi inviati per catturarlo e anche decidere dove andare a riparare le bestie per non pagare le gabelle dei dazieri. Gli anziani del posto confermano che il nome Cà del Vezzo deriva così dal suo fondatore: la casa di quello di Veggio.

 

FATTORIA  RANUZZI

la croce della Sgàvanna nei pressi della Fattoria Ranuzzi

Per il ritorno verso Cà Santoni optiamo per il sentiero che attraversa la famosa Abetaia Ranuzzi, e termina a Bruscoli passando dalla croce della Sgavenna (Sgàvanna). Questo antico toponimo deriva dalla forma dialettale Sgà l’avena, ovvero “segar l’avena”. Infatti ancor oggi una targa metallica, posta ai piedi della croce nel 1873, ricorda che su quel poggio numerosi parrocchiani coltivatori giungevano in processione per invocare raccolti abbondanti. Dino ci racconta che proprio qui fu ucciso l’ultimo lupo della zona. Più in basso, in mezzo all’abetaia, sorge un laghetto alpino che lambisce la splendida fattoria dei Ranuzzi. Gli eredi del conte aprono la loro tenuta ogni anno agli inizi di settembre, quando la Madonna dell’Abetaia scende in paese a ricevere l’omaggio dei fedeli. La consuetudine vuole che tale evento abbia l’accompagnamento della Banda musicale del Paese e numerosi rappresentanti della famiglia Ranuzzi de Bianchi, cui è legata la vicenda storica di questa immagine sacra. Si narra infatti che nel 1854 il Conte Giuseppe De Bianchi venisse assalito da uno sciame di vespe cui era stato pestato il nido durante una cavalcata e che la propria incolumità, fosse da attribuire al miracoloso intervento della Vergine Maria. Per questo motivo, il conte commissionò la realizzazione di un dipinto con l’immagine sacra di Maria, che venne successivamente posta nel 1951 in una cappellina di pietra serena, a seguito di un’altra grazia ricevuta dalla nobile famiglia. Tornando a Cà Santoni, occorre constatare come l’ambiente circostante abbia sicuramente influito sulle credenze della gente del luogo: un piccolo borgo di montagna circondato da un folto bosco. Ancora oggi, è proprio in mezzo a queste valli che i suoi abitanti ammoniscono i forestieri: “brisa crèdder ch’ai sia, mò brisa crèdder ch’ain sia”. Non credere che ci sia, ma non credere che non ci sia.

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