In memoria di CRISTINA CAMPO

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Questo lo pseudonimo dietro cui spesso si celava l’importante scrittrice bolognese, nipote di Enrico Panzacchi, Vittoria Guerrini. Rifiutata, tra indifferenza e colpevoli silenzi, si è sempre scagliata contro consumismo e materialismo

Di Gian Luigi Zucchini

Rimettendo in ordine carte sparse dentro armadi e cassetti, trovo e rileggo un mio articolo pubblicato su questa rivista (Nelle Valli bolognesi, Anno XV, n. 58, pag. 50-51) in cui avevo scritto qualche notizia sul poeta Enrico Panzacchi, concludendo con la promessa di ritornare sull’argomento.

Rimedio immediatamente, per l’appunto occupandomi ora di una scrittrice bolognese, nipote del poeta bolognese, purtroppo ignota a moltissimi, affondata in un silenzio che dispiace e addolora. Si tratta di Cristina Campo, (pseudonimo di Vittoria Guerrini) nata a Bologna il 29 aprile 1923, scrittrice, poetessa, traduttrice dal tedesco dal francese e dall’inglese, intellettuale di controverse posizioni.

In aspra contestazione verso la società contemporanea, fin dalla giovinezza fu attratta da un tradizionalismo vissuto in costante contraddizione tra valori forti e sicuri e squallori del presente, posizione che espresse in numerosi scritti e nei vastissimi orizzonti della cultura, che per lei non aveva limiti, e così sconfinava spesso nel fantastico, nel mito, nella leggenda. Pensando e impegnandosi su vari fronti (dalla letteratura, alla poesia, alla fiaba, alla religione), fu quasi  inascoltata profetessa, individuando e denunciando i disastri (secondo lei) suscitati da un consumismo ed un materialismo spietatamente aggressivi.

Nata con una malformazione cardiaca, fu sempre di salute cagionevole, e nell’adolescenza dovette lasciare per sempre la scuola, studiando sotto la guida del padre, compositore e direttore d’orchestra. La madre, Emilia Putti, era sorella del celebre chirurgo ortopedico Vittorio Putti, il quale a sua volta era figlio di Marcello Putti e di Assunta Panzacchi, sorella del poeta Enrico. Famiglie importanti nella società bolognese di fine Ottocento e del secolo successivo, i cui membri emersero nel campo della medicina, della poesia, della vita universitaria, della  critica musicale ed altro ancora. Vittoria (che si firmò in seguito con vari nomi, ma soprattutto con Cristina Campo) non fu da meno.  Insofferente verso qualsiasi disciplina, si dedicò presto alla scrittura, per un istinto personale e senza ulteriori ambizioni di successo, tesa a far prevalere in ogni tempo della sua vita la perfezione della scrittura, la chiarezza dell’esposizione senza dubbiosi se e ma, e soprattutto la bellezza, sia spirituale che materiale: quindi la musica, la poesia, l’arte, lo studio del pensiero soprattutto antico ma anche moderno, le religioni, in particolare quella cristiana. Affascinata dal rito e dall’opulenza del cristianesimo ortodosso, fu coinvolta soprattutto da questa liturgia solenne, che via via approfondì, legandosi poi ad una fede cristiana di tradizione cattolica, che visse anche qui in modo, si potrebbe dire, quasi personale, legandosi sempre più alla liturgia tradizionale della chiesa di  Roma.

Quando esplosero gli anni del Concilio Vaticano II, e soprattutto negli immediati periodi successivi, Cristina si trovava a Roma, già da tempo operosa in ambiti giornalistici e di studio, producendo numerosi saggi che apparivano su riviste e periodici, o in volumi a più voci, ed anche raccolte di poesia, purtroppo poco note anche a causa del trepido rispetto che lei stessa aveva verso l’alto messaggio contenuto nei versi che andava via via producendo.

Aveva conosciuto, prima a Firenze, poi soprattutto a Roma, vari esponenti della cultura, tra cui il  poeta Mario Luzi, con il quale ebbe pure una storia sentimentale, e soprattutto, dalla fine degli anni ’50, lo studioso Elémire Zolla, forse l’unico vero e costante amore della sua vita, pur tra insofferenze e disagi da parte di entrambi a causa dei loro caratteri e della loro singolarità intellettuale.

Si conobbero nel corso di una serie di trasmissioni organizzate dalla RAI, a cui collaboravano. Lei, sola e sofferente, rattristata da una società considerata promotrice di desolazione culturale; lui, attratto dalla sensibilità di lei, dalla sua grazia fisica e di comportamento e dal suo complesso pensiero.

Un rapporto contrastato e difficile, avendo lui sposato nel frattempo la poetessa Maria Luisa Spaziani, che lasciò dopo pochissimo tempo.

Nel frattempo, era scomparso papa Giovanni XXIII, si era concluso il Concilio Vaticano II, erano iniziati disagi profondi nella Chiesa cattolica, e si verificarono parecchie scissioni o scismi, tra cui quello particolare del vescovo mons. Lefebvre, di cui la Campo divenne ammiratrice e, per alcuni aspetti, anche collaboratrice. Da quel momento, tutte le sue energie furono rivolte alla difesa e conservazione degli aspetti che considerava fondamento della cristianità, come la Tradizione della Chiesa, tra cui la lingua latina e il canto gregoriano. E intanto continuava il lavoro letterario, e le traduzioni di scrittori e poeti, che aveva iniziato da tempo, ma anche le sue riflessioni e i suoi studi sulla fiaba, pubblicando nel 1971 il volume Il flauto e il tappeto, edito da Rusconi, editore di riviste e, per un periodo, anche di libri, soprattutto di opere ritenute di cultura tradizionalista  moderatamente conservatrice, soprattutto in campo valoriale e concettuale.

Fu questo il lavoro che, tra gli altri, dovrebbe essere meglio valorizzato, poiché lei esplorò con giudizi di particolare originalità un aspetto della cultura piuttosto in ombra e fino a quei tempi assai poco considerato, e cioè lo studio della letteratura giovanile, e in essa del vasto fantasticare tra invenzione, realtà, desiderio e sogno; come, nella poesia Romagna, già aveva scritto, fantasticando, il poeta Giovanni Pascoli: ….io galoppava con Guidon  Selvaggio / e con Astolfo….cavalieri della fantasia, come si sa, che compaiono nell’Orlando Furioso.

Ci sarebbe ancora molto da dire, e da scoprire, intorno a questa straordinaria scrittrice. Di lei però, di visivo, resta molto poco a Bologna: soltanto la piccolo lapide di un’ amica bolognese, Ida Samuel, ormai scomparsa da tempo, posta sulla tomba della famiglia Putti, alla Certosa: Qui riposa Vittoria Guerrini / in arte / Cristina Campo / nipote del prof. Putti / La tua cara amica Ida Samuel.

Fu lei, l’amica – così mi si disse – che molto si impegnò per far traslare i resti di Cristina Campo, da Roma, dove era morta il 10 gennaio1977,  a Bologna, e che volle mettere quell’umile ricordo sulla tomba di lei.

Qualche amico o estimatore testimoniò, alla morte di lei, con un articolo la forza e la bellezza ideale della scrittrice. Alfredo Cattabiani, su Il tempo, intitolava così un suo pezzo: È morta Cristina Campo, interprete della perfezione: e Pietro Citati, che le fu amico: Era una creatura accesa, piena di ardore cavalleresco, era Clorinda ignara di prudenza e di mezzi termini. Viveva, tra i contrari, speranza e disperazione, passione e disprezzo, furia e dolcezza, e trovava una specie di quiete solo intensificando le proprie contraddizioni.

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