La storia dei ‘gangster di celluloide’ tra rapine, fughe e omicidi che all’inizio degli anni ’50 tenne col fiato sospeso l’Italia intera
Claudio Evangelisti
(foto concesse dalla famiglia Casaroli)
Sono quasi le due di pomeriggio del 16 dicembre 1950 e nel pieno centro di Bologna, dopo una sparatoria da far west si contano tre morti ammazzati, un suicida e il pericolo pubblico numero uno gravemente ferito sull’asfalto. La banda Casaroli è stata sgominata.
A Bologna, nell’immediato dopoguerra, si consuma il dramma dell’efferata Banda Casaroli, un terzetto di criminali sanguinari che si erano conosciuti nel carcere di San Giovanni in Monte. Tutti e tre bolognesi, cinici, spavaldi, sicuri – troppo sicuri – di se stessi, appartenenti alla generazione degli ‘sbandati’ degli anni cinquanta. La stampa ribattezzò la banda “gangster di celluloide” e infatti il regista Florestano Vancini sentì l’urgenza di rappresentare quel periodo di contrasti irrisolti con un film di successo come “La banda Casaroli (1962)” nel quale giganteggia il carismatico Paolo Casaroli (ben interpretato da un allucinato e indemoniato Renato Salvatori) e dove vengono ritratti questi giovani disillusi legati da una profonda amicizia e da un patto di morte, il lancio in aria di una scatola di fiammiferi, testa o croce… fu il destino a scegliere. “Se veniva testa, continuavamo a cercare un impiego; invece era croce…e allora avanti con le banche”, racconta lo stesso Casaroli in un intervista rilasciata a Enzo Biagi. In seguito, il rapinatore, si fece incidere le parole “Mamma, fu destino” su un braccialetto d’oro.
Il bello, il gregario e il cattivo
Prima della Banda della Magliana a Roma, prima di Vallanzasca e Turatello a Milano e prima ancora della Banda Cavallero a Torino. La Banda Casaroli rappresentò un fenomeno unico nella delinquenza del dopoguerra, adottando tecniche simili a quelle dei gangsters d’oltreoceano con automobili, armi da fuoco e grande rapidità. Il gruppo era formato essenzialmente da tre banditi: Romano Ranuzzi (Romano il bello) classe 1927. Alto, riccioluto, fin da giovanissimo dedicava una grande cura alla sua persona. Aveva perso la madre nel 42 e dopo aver vissuto con il patrigno, nel 1944 era scappato di casa per combattere con i partigiani della settima GAP. Dopo la fine della guerra non aveva saputo separarsi dal suo mitra. Quando però l’aveva impugnato per rapinare una banca in via Duca d’Aosta a Bologna usando come mezzo di fuga il tram, aveva ecceduto un po’ troppo in audacia, ed era finito in carcere, dove aveva potuto continuare le sue letture preferite (le opere di Lombroso), mentre a poche celle di distanza udiva Casaroli, recitare brani di poesie dannunziane. Nello stesso carcere lo aveva seguito il suo fedele e devoto gregario Daniele Farris anche lui nato nel 1927, figlio illegittimo di una cuoca bolognese, che lo aveva avuto con un immigrato sardo. Era stato tra i primi ad arruolarsi nella Brigata Nera bolognese del sanguinario comandante Franz Pagliani che fu poi estromesso dalla carica dal Duce in persona, il 28 gennaio 45, in seguito “alle violenze, torture e omicidi compiuti dalle B.N. bolognesi”.
Paolo Casaroli, classe 1925 era il leader del gruppo. Fin da ragazzo si era mostrato rissoso, violento e terribilmente fantasioso. La madre alcolizzata, il padre inesistente, uno zio materno morto in manicomio non rappresentavano certo l’ambito familiare più tranquillizzante. Il ragazzo era avido di letture, ma incapace di studiare in modo sistematico. Nel 1944 si era arruolato nella Decima Mas. Poi era arrivata la pace, ma il giovanotto aveva imparato a usare il mitra, e ci si era affezionato, finendo ben presto dentro per rapina; in galera avrebbe avuto molto tempo per dedicarsi ai suoi svaghi intellettuali, come la lettura di Jung e delle poesie di D’Annunzio. Di questa peculiarità intellettuale della banda, ne parla lo scrittore Claudio Bolognini (Mani in alto – Il romanzo della banda Casaroli.) “Colpisce il fatto che tutti e tre in carcere hanno studiato e letto testi di Sartre, Nietzsche e D’Annunzio. Questo fatto è incredibile perché nella società di allora e soprattutto in carcere si arrivava a leggere al massimo romanzi d’appendice. Potrei definirli dei gangster con un discreto livello intellettuale e una voglia di rivalsa in una società che era mutata radicalmente. Avevano una manifesta avversione per gli ex fascisti divenuti comunisti dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e per i comunisti che avevano rinunciato ai propositi di cambiamento in nome di una vita tranquilla”.
Gli assalti alle banche
Casaroli era ansioso di fare grandi imprese, anche se non sapeva di preciso quali; Ranuzzi lo affascinava, soprattutto per l’audacia che aveva dimostrato. Erano in molti a pensare che il vero capo banda fosse lui, Romano il bello, con quel viso da attore e con quel cognome che a Bologna suonava di nobiltà. Farris era una specie di cane fedele, abituato ad obbedire. Al terzetto si aggiunse Giovanni De Lucca, un tipo tosto pronto a sparare a chiunque e che proveniva dal popolare rione della Cirenaica, fuori Porta San Vitale. L’autista della banda era un ex brigatista nero, Lorenzo Ansaloni amico di Paolo Casaroli. Nell’autunno del 1950 viene pianificata la prima rapina in banca, che doveva essere fuori Bologna per non destare sospetti. Martedì 3 ottobre 1950 viene assaltata la succursale di Binasco della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde. Nella banca, Casaroli e Ranuzzi legarono il direttore e i due impiegati e arraffarono seicentomila lire o poco più. Fuori ad attenderli c’erano De Lucca, che faceva il palo e, alla guida di un’auto con la targa falsa, Giacomo Torchi, un giovane ingenuo che era stato coinvolto per l’occasione e che dopo il ritorno a Bologna fu subito congedato con un modesto compenso e tante minacce.
Un esordio campagnolo che non fa onore alla ditta Casaroli-Ranuzzi e infatti la banda vera e propria nasce il 9 ottobre 1950, quando al Banco di Roma di Genova svuotano la cassaforte contenente 6 milioni ed entra in scena Daniele Farris e quel Ansaloni conducente di vetture a noleggio, dall’aria un pò tonta, che si rivela un eccellente autista riuscendo a passare tutti i posti blocco della polizia per rientrare a Bologna da solo, mentre i suoi complici usano il treno. Il mese seguente, a Torino, commisero la loro terza rapina. Giovedì 23 novembre la banda al gran completo prese d’assalto l’agenzia 8 della Cassa di Risparmio di Torino, in via Stradella. Mentre Ansaloni attendeva poco distante nell’auto col motore acceso e De Lucca rimaneva fuori armato, Casaroli, Ranuzzi e Farris entrarono in banca spianando le armi e intimando ai presenti di stendersi a terra a faccia in giù. Farris si piazzò vicino all’ingresso, Casaroli e Ranuzzi saltarono oltre il bancone e presero i soldi a portata di mano, circa novecentomila lire, senza accorgersi di alcuni milioni custoditi altrove. Come da copione riescono ancora a dileguarsi. Venerdì 15 dicembre l’ultima rapina della banda: tentano il colpo grosso a Roma al Banco di Sicilia in via Trastevere. Casaroli, Ranuzzi, Farris e De Lucca arrivarono sul luogo con quattro pistole, due mitra e bombe a mano, accompagnati da una Fiat 1400 noleggiata a Bologna e guidata da Ansaloni. Casaroli, seguito dagli altri tre, entrò per primo armato di pistola e intimò il ‘mani in alto’, ma un cassiere ebbe una pronta reazione, riuscendo a prendere una pistola e a sparare. Un altro impiegato, il ragionier Civiletti, tentò di uscire dalla banca, ma si trovò la strada sbarrata da De Lucca che stava entrando armato di mitra e lo affrontò afferrandogli l’arma; De Lucca lasciò il mitra ed estratta una pistola ferì il Civiletti con una pallottola al ventre. Contemporaneamente, mentre un fattorino tentava di disarmare un altro bandito e un secondo cassiere si univa alla sparatoria, partì una raffica dal mitra di Farris e un proiettile raggiunse nel suo ufficio il direttore Angelucci che cadde fulminato. Dopo una precipitosa fuga, Ansaloni riportò ancora una volta da solo l’auto a Bologna riuscendo a superare numerosi posti di blocco delle forze dell’ordine, dicendo che aveva accompagnato un regista a Cinecittà, mentre gli altri quattro rientrarono con il treno.
Il tragico epilogo
Il giorno dopo la sanguinosa rapina, sabato 16 dicembre 1950, anche a Bologna, gli inquirenti seguirono la pista della Fiat 1400 che era stata vista fuggire da alcuni testimoni. Venne identificata un’auto a noleggio riconsegnata il giorno dopo la rapina e con gli stessi km del tragitto Roma andata e ritorno. Non essendovi però ancora nessun preciso sospetto, gli agenti di polizia Giuseppe Tesoro e Giancarlo Tonelli, all’ora di pranzo, si recarono all’abitazione di Casaroli in via San Petronio Vecchio, per un controllo di prassi su un pregiudicato. Tonelli fu fatto entrare da Casaroli che era in compagnia di Ranuzzi, vecchia conoscenza del poliziotto. I due furono così invitati a seguirlo in questura. Ranuzzi, ritenendo di essere stato scoperto reagì di impulso, colpi con un pugno Tonelli e dopo averlo disarmato corse verso l’uscita insieme a Casaroli. L’agente Tesoro che attendeva all’esterno venne freddato da Ranuzzi. Tonelli, intanto, tentò di inseguirli nella strada, ma in via Santo Stefano i due balzarono su un tram e gli spararono contro, ferendolo al fegato. Quando poco dopo ne discesero perché il mezzo era troppo lento furono affrontati da Mario Chiari, un ex brigadiere dei carabinieri, che tentò di ostacolarli e che fu ucciso da Casaroli. Sentendo gli spari, il vigile urbano Luigi Zedda, in servizio in via Santo Stefano, accorse con la pistola in mano, ma fu ferito a una coscia e cadde a terra. Subito dopo i banditi spararono anche a un tassista, Antonio Morselli, uccidendolo perché non li aveva fatti salire sul taxi e cercava di fuggire. Mentre nella zona accorrevano altri vigili urbani, agenti di polizia e carabinieri, i due malviventi cercarono un mezzo per allontanarsi velocemente e fermarono, una dopo l’altra, tre auto di passaggio, ma nella concitazione non riuscirono a farle ripartire. Pur armati ciascuno di due pistole con le quali sparavano all’impazzata, Casaroli e Ranuzzi non poterono sfuggire al fuoco delle guardie e addirittura dai tiri di alcuni passanti al riparo delle colonne dei portici. Ranuzzi, colpito all’inguine e fedele al patto di sangue tra i due, si sparò un colpo alla tempia seduto sul sedile posteriore della seconda auto; Casaroli, dopo aver tentato invano di mettere in moto anche la terza automobile, ne uscì e stramazzò al suolo ferito in modo grave. Le prime notizie lo dettero per morto. Fu così che Daniele Farris, pensando di essere l’unico superstite del terzetto, la sera stessa, seduto al cinema Manzoni, si sparò un colpo al cuore lasciando un biglietto nel quale esprimeva il suo rimorso per non essere stato con gli amici nell’ultima efferata impresa. Dopo il ricovero in ospedale, nel 1952 Casaroli viene condannato all’ergastolo dal Tribunale di Bologna, per l’omicidio di 4 persone. Insieme a lui vennero condannati i due superstiti della banda, Ansaloni e De Lucca.
Durante il processo, Casaroli tenne sempre un atteggiamento estremamente spavaldo.
Quando il regista Vancini lo andò a trovare nel carcere di Porto Azzurro nel 1962 insieme all’attore Renato Salvatori, trovò un uomo molto distaccato, indifferente anche alla preparazione del film sulle sue gesta. Nessun pentimento, ci teneva solo a parlare dei suo quadri, ai quali dedicava tutto il tempo. Durante la detenzione ebbe come una metamorfosi: era stato tanto violento in gioventù quanto mite e pacifico nella maturità. Nel 1979 fu liberato con la condizionale e come pittore espose le sue opere anche a Bologna. Visse a Marzabotto dove si sposò ed ebbe un figlio. Cardiopatico, la notte del capodanno 1993 il bandito redento che non credeva più alla violenza ma al ricorso dell’impegno civile per il raggiungimento dei propri ideali, si è spento al Sant’Orsola.